Capitolo V. Inventare la tradizione:
Creuza de mä (1984)
V – 1. Il mare e la terra
Il termine creuza204 indica in genovese una strada suburbana, incassata fra due muri di proprietà. La creuza de mä è dunque una strada di questo tipo, che conduce al mare. Il fatto che, in italiano, nessuna traduzione del vocabolo soddisfi fino in fondo205 è indicativo: non solo di quanto ogni lingua sia inestricabilmente legata al contesto in cui è parlata, ma anche, per quanto ci riguarda più da vicino, dell'inestricabile legame che forma e contenuto intrattengono in questo disco. In Creuza de mä la forma si fa essa stessa contenuto; il contenuto, d'altra parte, non potrebbe venire espresso se non attraverso quella forma, oppure sarebbe necessariamente un contenuto diverso. Come la creuza, che, venendo tradotta in italiano come "mulattiera", già creuza più non è.
Non si tratta, ovviamente, soltanto di puntiglio linguistico. In diverse occasioni, infatti, abbiamo avuto modo di sottolineare l'attenzione sempre riservata da Fabrizio De André al particolare, al dettaglio concreto; allo stesso tempo, abbiamo notato come quel particolare e quel dettaglio non avessero, il più delle volte, valore in se stessi, nel loro senso letterale, ma come essi, al contrario, rimandassero quasi sempre a qualcosa d'altro, d'ulteriore. Anche l'immagine della creuza de mä, dunque, non è posta per caso al centro di questo disco, e prima di esplicarla in quanto metafora complessa che raccoglie su di sé molti dei significati sviluppati poi nei singoli brani sarà bene analizzarla nei suoi tratti fondamentali.
Essenzialmente tipica del paesaggio ligure, attraversando il territorio collinare tra una proprietà e l'altra la creuza de mä conduce chi proviene dall'entroterra in riva al mare, e chi proviene dal mare nell'entroterra. Oltre a costituire un patrimonio comune e un bene di tutti, quindi, essa realizza la sua funzione, di fatto, completando l'unione della terra con il mare, e del mare con la terra; permettendo, e anzi facendosi garante di un movimento, di uno spostamento continuo tra questi due elementi altrettanto fondamentali, e peraltro fra loro complementari, imprescindibili.
Per inquadrare meglio questo legame essenziale del mare con la terra che costituisce la base tematica del disco di De André, sarà utile introdurre già qui in apertura il riferimento a due opere letterarie che saranno richiamate anche altrove nel corso del capitolo, in funzione di parallelo con l'oggetto primario della nostra analisi e interpretazione. La prima è Ossi di seppia di Eugenio Montale206, opera fortemente radicata – come Creuza de mä – nel paesaggio della Liguria: anche la raccolta di Montale rimanda già dal titolo non solo a una fondamentale opposizione fra i due elementi in questione, ma anche a una loro essenziale complementarietà, dato che gli ossi di seppia sono il correlativo oggettivo di una parabola che ha inizio nel mare, ma che si conclude necessariamente sulla terra. La seconda è invece un classico che, proprio e principalmente in quanto tale, non può non costituire un punto di riferimento continuo per un disco come quello di De André: l'Odissea di Omero207, narrazione di un viaggio per mare che, come in Creuza de mä, non è mai davvero fine a se stesso, ma ha sempre la terra come meta e come paradigma.
Prima ancora di essere coinvolti in una metafora complessa come quella della creuza de mä, comunque, terra e mare sono essi stessi – nell'album, come anche nelle due opere letterarie sopra citate – elementi densi di significato e di significati, non solo letterali ma anche e soprattutto metaforici. Se, a questo proposito, volessimo provare a delineare alcuni tratti che il mare e la terra in qualche modo condividono in Creuza de mä, in Ossi di seppia e nell'Odissea, potremmo osservare che, mentre il mare è sempre elemento mobile e mutevole, ma anche vitale, di apertura – verso l'ignoto, l'altro, il diverso – , la terra, al contrario, si definisce proprio attraverso la sua stabile solidità, e una fissa conservazione delle radici che, a volte, può divenire persino paralisi.
Per quanto riguarda, nello specifico, il disco di Fabrizio De André, il mare e la terra non possono che inserirsi metaforicamente, qui, nel discorso che il cantautore svolge in merito alla tradizione, esplicitando e portando a compimento le premesse degli album precedenti. Se quindi, da questo punto di vista, la terra non potrà che rappresentare le radici identitarie di una determinata cultura, il mare significherà, all'opposto, l'apertura e l'incontro con elementi altri, estranei o semplicemente nuovi, che di quella cultura potranno garantire non solo la sopravvivenza, ma anche la fondamentale vitalità. La creuza de mä, a sua volta, nel raffigurare l'indispensabile interdipendenza fra terra e mare e la necessità continua di muoversi, di spostarsi dall'una all'altro, indicherà allora, fuor di metafora, la vitale esigenza, per una cultura, di aprirsi agli apporti provenienti dall'esterno e di reinventarsi di continuo, non aspirando a conservare sterilmente un'identità immobile e sempre uguale a sé, ma, al contrario, a riconquistare di continuo un'identità sempre nuova e sempre viva.
V – 2. Radici e genesi del disco
Creuza de mä esce per la Ricordi nel 1984, cofirmato da Fabrizio De André e Mauro Pagani. Le radici del disco, tuttavia, sono da ricercare già almeno nella seconda metà degli anni Settanta, allorché Pagani inizia a interessarsi attivamente alla musica e alle sonorità mediterranee conducendo in merito ascolti, ricerche e studi di carattere a metà tra l'etnologico e il musicologico, e poi collaborando, a sua volta, con musicisti che già allora sperimentavano in quella direzione. Nell'intervista rilasciata a Riccardo Bertoncelli208, parlando delle origini di Creuza de mä Pagani fa tre nomi estremamente significativi, che ci aiutano non poco a inquadrare i riferimenti del disco: innanzitutto quello di Demetrio Stratos, il quale – insieme agli Area, a Mario Arcari, a Franco Mussida e ad altri – aveva peraltro collaborato al disco Mauro Pagani del 1978, dove già una chiara sensibilità etnica mostrava di prendere forma; in secondo luogo, quello di Moni Ovadia; infine, quello di Béla Bartók, il musicista e studioso della musica popolare che abbiamo già avuto modo di citare, e su cui torneremo ancora.
In quanto a De André, abbiamo visto che i due album scritti insieme a Massimo Bubola, Rimini e L'indiano, segnalano anche da parte sua un rinnovato interesse per la tradizione popolare – sebbene, in questo caso, non specificatamente mediterranea – , dopo la fase più intellettualistica dei tre concept prodotti da Roberto Dané all'inizio degli anni Settanta e dopo la parentesi rappresentata da Volume 8. Abbiamo anche già notato come, in Rimini, questo interesse si concretizzi spesso e volentieri nel recupero e nel riutilizzo di forme – sia letterarie che musicali – tipicamente popolari, che De André cuce insieme a seconda delle sue esigenze: se in Volta la carta la forma della filastrocca si innesta su una struttura musicale di giga, la medesima struttura si ritrova anche, all'interno dello stesso disco, in Zirichiltaggia, la quale, con il suo testo in dialetto sardo ispirato alla forma dell'alterco, costituisce senza dubbio uno dei principali precedenti dei brani in genovese di Creuza de mä.
Ne L'indiano, poi, linguaggi e influssi popolari si combinano – pur all'interno di una struttura di matrice pop-rock – con il tema del parallelismo tra il popolo sardo e gli indiani d'America, e con un'attenzione tutta nuova verso la questione dell'identità etnica. Si tratta, anche da questo punto di vista, di un antecedente tutt'altro che secondario, dal momento che anche in Creuza de mä il ricorso al dialetto, alle sonorità mediterranee e in generale a forme inequivocabilmente popolari andrà di pari passo, e non potrà prescindere, da un discorso sulla tradizione svolto su un livello più propriamente ideologico. L'indiano, inoltre, segna una svolta importante anche perché è proprio in occasione della tournée seguita alla pubblicazione di questo disco che Fabrizio De André e Mauro Pagani hanno modo di approfondire la loro conoscenza – nata da un incontro fortuito agli studi di registrazione Stone Castles a Carimate – , e di sviluppare gradualmente il progetto di un album sul Mediterraneo.209
Già sappiamo che i testi in genovese di Creuza de mä vengono scritti da De André su musiche che Pagani aveva composto in precedenza, e che, per dare un'idea delle sonorità ricercate anche a livello linguistico, aveva cantato nei provini in "arabo maccheronico"210. Sarà bene tenere sempre presente, quindi, che sono la musica e soprattutto i suoni a costituire, qui, il fondamentale punto di partenza: non solo perché sono essi a determinare la forma poi concretamente assunta dai versi – come avviene, del resto, in tutta la produzione deandreiana – , ma anche e soprattutto perché, nel caso specifico, il discorso sulla tradizione che si pone anche ideologicamente al centro del disco scaturisce proprio dalla ricerca – musicale e sonora, prima ancora che linguistica e testuale – di una forma adatta a rispecchiare l'idea. In Creuza de mä, in altre parole, la forma diviene il contenuto, e il messaggio, più che venire espresso attraverso il linguaggio, finisce per coincidere con esso.
V – 3. La forma e l'idea
CRÊUZA è stato il miracolo di un incontro simultaneo fra un linguaggio musicale e una lingua letteraria, entrambi inventati. Prima di CRÊUZA mai il bouzouki era stato suonato in quel modo e mai il genovese aveva assunto così evidenti connotati di lingua arabo-turco-ligure, fino alla storpiatura della stessa foné originale. CRÊUZA è il frutto della ricerca di un linguaggio musicale e letterario che è da ascriversi più al sogno che alla coscienza [...] Per questo è un disco fuori dal tempo [...]211
Un dato fondamentale di Creuza de mä è che Creuza de mä non è un disco di world music: Creuza de mä è un romanzo d'avventure, con ambientazione nel Mediterraneo. È scritto da due viaggiatori stanziali, che, viaggiare, avevan viaggiato poco. [...] Io nel Mediterraneo avevo viaggiato stando fermo a casa ascoltando tutti i dischi che potevo [...] Non ci sono musicisti mediterranei: siamo io e lui e qualche amico che ci siamo inventati. [...]212
Partiamo da queste due dichiarazioni, la prima di Fabrizio De André e la seconda di Mauro Pagani: ciò su cui entrambi gli autori pongono l'accento, qui, è il concetto di invenzione. Pagani, nell'affermare che Creuza de mä non è un disco di world music bensì un romanzo d'avventure con ambientazione mediterranea, ci dice innanzitutto che il Mediterraneo che trova rappresentazione nell'album non è il Mediterraneo reale, fotografato con intenzioni documentaristiche o filologiche, ma piuttosto un Mediterraneo ideale, che assume determinate caratteristiche in base all'idea – appunto – con la quale i due autori lo identificano. Del resto, anche De André dichiara in più di un'occasione che Creuza de mä è l'esatto contrario del disco folcloristico213; esso è, se mai, un disco etnico, che non mira a riproporre a vuoto una tradizione conservata sempre uguale a se stessa, ma in cui della tradizione, se mai, ci si appropria, manipolandola e mettendola in discussione, e inventando a partire da essa forme sostanzialmente nuove corrispondenti a contenuti altrettanto originali.
Per comprendere a fondo l'idea di Mediterraneo che è alla base dell'album, comunque, non possiamo che passare attraverso l'analisi dei linguaggi sviluppati per darle una forma, e cioè le musiche scritte e registrate da Pagani dopo anni di frequentazione dell'ambiente etnico e i testi in quel dialetto genovese che il cantautore sceglie di abbinare alle sonorità mediterranee realizzate dagli strumenti. A un primo sguardo, potrebbe sembrare strano che De André definisca "inventati" due linguaggi di questo tipo, che sembrerebbero invece affondare le loro radici nella tradizione più profonda; a un'analisi più ravvicinata, tuttavia, ci si accorgerà che entrambi – pur intrattenendo un chiaro legame con forme tradizionali – sono in realtà il frutto di una manipolazione ben precisa effettuata dagli autori su tale tradizione.
Prendendo in considerazione le musiche, si noterà che l'unico carattere in tutto e per tutto mediterraneo che vi sia rintracciabile riguarda gli strumenti con i quali esse sono eseguite. In ciascuno dei sette brani dell'album, in effetti, è presente almeno uno strumento etnico: il bouzouki greco in A píttima – cui si aggiunge, negli intermezzi, anche il flauto a canna – e nella title track, la cui introduzione è affidata, inoltre, alla gajda macedone; l'oud arabo in Sinàn Capudàn Pascià e in Jamin-a, dove esso concorre alla sezione ritmica insieme allo zerb persiano, mentre allo shannaj turco sono riservate alcune brevi intrusioni; la chitarra andalusa e i mandolini – sia acustici che elettrificati – in A dumènega; il saz turco in Sidùn; infine, la chitarra ottava in D'ä mæ riva.214
Di propriamente mediterraneo, in altre parole, c'è nelle musiche di Creuza de mä soltanto una patina, un rivestimento esterno, che coinvolge senz'altro le sonorità ma che d'altra parte lascia intatta la struttura: questa rimane, in tutto e per tutto, saldamente occidentale. Prova ne è che gli strumenti etnici vengano – laddove possibile – accordati in modo che essi si adattino al sistema tonale classico, e allo stesso tempo, ovviamente, alle tastiere e agli altri strumenti del contemporaneo progressive rock. L'operazione compiuta da Mauro Pagani con le musiche di Creuza de mä, quindi, se da un lato presuppone una fondamentale apertura nei confronti di sonorità altre e diverse da quelle più comuni e consuete, dall'altro, di fatto, consiste in un adattamento delle caratteristiche intrinseche agli strumenti etnici alle esigenze del sistema musicale occidentale; un'operazione, quindi, senz'altro di avvicinamento, ma anche – inevitabilmente – di sovrapposizione.
Procedimento per certi versi analogo, e per altri invece opposto e speculare, è quello svolto da De André con i testi. Va detto, innanzitutto, che l'idea iniziale era quella di elaborare, a partire dalle musiche già scritte da Pagani, una lingua immaginaria, una sorta di grammelot del marinaio che sintetizzasse in qualche modo tutte le lingue del Mediterraneo. L'intuizione del cantautore di servirsi, invece, del dialetto genovese si rivela ancora più efficace, non solo perché consente al discorso di svolgersi su un piano meno astratto e, per l'appunto, meno immaginario, ma anche e soprattutto perché il dialetto, essendo il linguaggio tradizionale per eccellenza, permette a De André di discutere la tradizione nel momento stesso in cui ne recupera – e, come di consueto, ne rielabora – le forme: lungi dal farne un utilizzo filologico215, il cantautore piega il genovese all'esigenza di metterne in evidenza gli influssi derivati da altre lingue mediterranee, risultato di secoli di incontri, contatti e scambi tra popoli e civiltà.
A ben vedere, quindi, la scelta formale di De André è ancora più radicale rispetto a quella di Pagani, perché non comporta solo un'apertura agli influssi provenienti dall'esterno e ai contatti con l'altro, ma addirittura implica il riconoscimento di quell'altro all'interno della propria identità, e insieme la consapevolezza che ogni identità – e, di conseguenza, ogni tradizione – non vanno ereditate e trasmesse così come sono, in virtù della conservazione di una fantomatica "purezza", ma vanno sempre costruite attraverso l'incontro, il confronto, lo scambio.216 Non possono non tornare alla mente, a questo proposito, le considerazioni di Béla Bartók217 su come la musica popolare sia naturalmente impura per via dei necessari contatti fra i diversi popoli, e su come sia assurdo immaginare una tradizione che risalga ai primordi senza mai essere stata in qualche modo ibridata.
Ciò che più conta, comunque, è che De André, facendo apparentemente una scelta formale tradizionalista, smaschera in realtà lo stesso tradizionalismo come costruzione ideologica, che impone alla tradizione una "purezza" che non può darsi per definizione, e che nasconde, in fondo, un'essenziale volontà di conservazione. Se pensiamo, poi, che il medesimo dialetto che, nel disco, viene parlato dai marinai genovesi – la cui vita è scandita da continui ritorni e continue partenze, dal mare alla terra e dalla terra al mare – viene messo in bocca anche all'uomo arabo che, in Sidùn, tiene fra le braccia il corpo del proprio figlio maciullato dai carri armati, allora comprendiamo subito come il discorso del cantautore trascenda i confini dell'identità e della cultura genovesi per divenire, in fin dei conti, un discorso ben più ampio, che coinvolge la tradizione in quanto tale, come idea complessiva.
Nel secondo capitolo dicevamo che Creuza de mä rappresenta l'operazione più estrema e radicale compiuta da De André a livello di scrittura. Alla luce di quanto visto fin qui, possiamo ora confermarlo, e precisare come ciò sia dovuto, fondamentalmente, a due motivi. Il primo riguarda il fatto che nel caso di Creuza de mä il recupero e il riutilizzo di forme riconducibili alla tradizione va di pari passo con una riflessione di carattere teorico e ideologico su di essa; in altre parole, tale recupero e tale riutilizzo si configurano in questo album come operazione meta-letteraria e meta-musicale, dove le forme rimandano esse stesse al contenuto dell'idea. Il secondo motivo, invece, ha a che fare con quel concetto di tradizione aperta che abbiamo già avuto occasione di delineare, e che in questo disco si concretizza in una riappropriazione talmente profonda dei linguaggi tradizionali da risultare, per molti aspetti, in una vera e propria invenzione.
V – 4. Dialetto, popolo, autenticità
In Creuza de mä il dialetto genovese, oltre che fornire a De André un'occasione importante di riflessione meta-linguistica e meta-letteraria sulla tradizione, gli permette anche di introdurre nel discorso un tema a cui egli si mostrerà sempre particolarmente affezionato, anche nel corso degli anni a venire218: il tema del rapporto fra dialetto, popolo e autenticità. Come è lo stesso cantautore a riconoscere in uno dei suoi tipici "parlati" durante un concerto del 1998, a procurargli uno spunto fondamentale per la riflessione su questo argomento è Pier Paolo Pasolini:
[...] Io penso che le vere lingue madri, in Italia – una nazione così giovane, per permettersi il lusso di pensare che la propria lingua sia l'italiano – [siano] proprio gli idiomi minori, le lingue locali, che, d'altra parte, hanno anche la funzione di nutrire la lingua maggiore [...] Dal Manzoni in poi direi che questa lingua è decaduta parecchio, se non fossero i dialetti appunto a nutrirla con le loro invenzioni [...] con le massime, con i proverbi, con le cosiddette frasi idiomatiche. Pasolini diceva che il dialetto è il popolo e il popolo è l'autenticità. Sembrerebbero la tesi e l'antitesi di una specie di sillogismo, che richiede come sintesi questa: che il dialetto è l'autenticità. [...]219
Pasolini, in effetti, oltre ad aver studiato e raccolto la poesia popolare nel suo celeberrimo Canzoniere italiano220, dedica al popolo e alla sua cultura non poche riflessioni – per lo più di carattere sociologico ed etnologico – durante la sua intensa attività di articolista, in particolare durante la prima metà degli anni Settanta; molti degli scritti usciti allora, a riguardo, su diversi quotidiani, riviste e periodici si ritrovano oggi raccolti nei due fondamentali volumi Lettere luterane e soprattutto Scritti corsari221. Tra gli articoli più celebri, non possiamo non citare qui la lettera aperta a Italo Calvino uscita originariamente su Paese sera e pubblicata poi in Scritti corsari con il titolo Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino, in cui Pasolini afferma di rimpiangere l'"illimitato mondo contadino prenazionale e preindustriale, sopravvissuto fino a solo pochi anni fa"222, e in cui troviamo una significativa riflessione a proposito dei dialetti:
[...] Dal punto di vista del linguaggio verbale, si ha la riduzione di tutta la lingua a lingua comunicativa, con un enorme impoverimento dell'espressività. I dialetti (gli idiomi materni!) sono allontanati nel tempo e nello spazio: i figli sono costretti a non parlarli più perché vivono a Torino, a Milano o in Germania. Là dove si parlano ancora, essi hanno totalmente perso ogni loro potenzialità inventiva. Nessun ragazzo delle borgate romane sarebbe più in grado, per esempio, di capire il gergo dei miei romanzi di dieci-quindici anni fa: e, ironia della sorte!, sarebbe costretto a consultare l'annesso glossario come un buon borghese del Nord! [...]223
Come è noto, Pasolini riconduce la decadenza dei dialetti – come anche delle altre espressioni più tipiche della cultura popolare – all'egemonia di quella società dei consumi che trova la sua espressione più emblematica, invece, nella cultura di massa pubblicizzata dai media e nell'italiano appiattito dalla televisione. Non c'è quindi da stupirsi se anche per De André – il quale, sappiamo, conosceva e apprezzava Pasolini – il dialetto sarà sempre dotato anche di una particolare connotazione antiborghese, e visto, invece, come il linguaggio più puro di quell'autenticità e di quella vitalità popolari da opporre a ogni codice e a ogni falsa morale.
V – 5. Il viaggio
Come quello dell'Odissea, anche quello di Creuza de mä è innanzitutto un νόστος, un ritorno a casa. Non, quindi, un viaggio in senso assoluto, ma un viaggio per mare che ha per meta la terra, e la terra da cui si era partiti. Come in Ossi di seppia, anche in Creuza de mä il mare viene sempre completato dalla terra. Annunciata dalla gajda macedone, dunque, la nave entra in porto. I marinai sbarcano: dopo mesi, possono finalmente asciugarsi le ossa in una casa di pietra, e mangiare e bere come si deve, e guardare le ragazze. Il viaggio, però, li ha resi diversi, diversi senza che loro nemmeno se ne accorgessero:
"Umbre de muri, muri de mainè
Dunde ne vegní, duve l'è ch'anè"
De 'n scitu duve a lûn-a a se mostra nûa
E a neutte a n'à puntou u cutellu ä gua
E a montä l'äze u gh'è restou Dïu
U Diäu l'è in çë e u se gh'è faetu u nïu
[...]224
Come Odisseo, che al suo ritorno a Itaca è paradossalmente divenuto lui stesso lo ξένος, lo straniero, e dopo vent'anni di assenza deve riconquistarsi il suo ruolo e la sua appartenenza, così i marinai di Creuza de mä tornano in una Genova alla quale, ormai, appartengono solo a metà, "muri de mainè" fra le "facce de mandillä"225 di sconosciuti dell'entroterra. Come Odisseo anche loro, viaggiando, hanno conosciuto altri mondi, e ora tutto – anche Genova – non può che apparire diverso. Come Odisseo, infine, anche loro non si fermeranno a lungo sulla terra, legati come sono a quella "corda marsa d'ægua e de sä"226 che li riporterà in mare il mattino successivo:
[...]
E in scia barca du vin ghe naveghiemu 'n sci scheuggi
Emigranti du rïe cu' i cioi in ti euggi
Finch'u matín crescià da puéilu recheugge
Fre di ganeuffeni e de figge
Bacàn da corda marsa d'ægua e de sä
Ch'a ne liga e ne porta 'n' tena creuza de mä.227
Dopo il ritorno, quindi, di nuovo la partenza. Il viaggio dei marinai non ha mai veramente fine, e a dircelo è quella cantilena ritmica che funge da ritornello e in mezzo alle varie strofe scandisce il racconto a colpi di remi, perdendosi alla fine fra i rumori e le voci di un mercato che noi sappiamo essere, nei fatti, quello del pesce di piazza Cavour a Genova, ma che, a ben vedere, potrebbe essere qualsiasi mercato del Mediterraneo:
[...] Hai ascoltato il mercato del pesce registrato in piazza Cavour a Genova? Hai sentito quei suoni, queste voci che cantano – fortunatamente per me – in Re? Insomma, il tipo di canto di queste venditrici di pesce ti sembra molto lontano da quello di una venditrice di datteri ad Algeri? [...]228
In effetti, a convogliare il messaggio più profondo della title-track – e non solo – sono proprio i suoni, prima ancora che il testo: il suono della gajda macedone all'inizio e poi del bouzouki greco; il suono del dialetto genovese che De André piega foneticamente per evidenziarne le inflessioni frutto di secoli di incontri, contatti e scambi fra civiltà; il suono, infine, del mercato in cui si perdono le voci dei marinai appena ripartiti da Genova, e su cui a sua volta si innesta la ritmica della successiva Jamin-a, di ambientazione palesemente nordafricana. Tutto ci dice che fra qui e l'altrove non c'è davvero differenza; tutto ci parla, anzi, di un continuo riconoscersi nell'altrove. Il testo, d'altra parte, è interamente costruito intorno a quella metafora della creuza de mä che è alla base di tutto il disco: l'eterno viaggio di andata e ritorno dei marinai, il loro movimento continuo dal mare alla terra e dalla terra al mare, dunque, rispecchia sul piano del contenuto la fondamentale necessità di ridefinire di continuo la propria identità attraverso l'incontro con l'altro, già espressa in primo luogo attraverso i suoni e le sonorità.
Lasciatasi Genova nuovamente alle spalle, la nave approda alle coste nordafricane. È qui che ha luogo l'incontro fra un marinaio e Jamin-a, la "lua de pelle scûa"229 di cui il secondo brano dell'album porta il nome, e che, almeno idealmente, non può non ricordare figure come quelle di Calipso e Circe nell'Odissea. Si tratta di un incontro essenzialmente fisico, reso in tutta la sua vivida intensità soprattutto dagli strumenti etnici: in particolare, lo zerb persiano e l'oud arabo, che intessono una ritmica sempre più avvolgente e travolgente a rendere il climax dell'amplesso tra i due, mentre le intrusioni dello shannaj turco esprimono tutta la carica ammaliante, seduttiva e anche un po' ipnotica della protagonista. Del resto, a confermare che a condurre l'incontro sia principalmente Jamin-a è proprio il testo narrato dal punto di vista del marinaio, in cui il tono tra il divertito e il compiaciuto dell'inizio lascia gradualmente spazio a un coinvolgimento sempre più estatico e sempre più totale.
Ciò che più conta, comunque, è che persino un brano come Jamin-a, nelle dinamiche di Creuza de mä, assume una valenza allegorica tutt'altro che secondaria, tale per cui l'incontro fra un uomo genovese e una donna nordafricana – incontro che risulta nello "scambio" più immediato e naturale che ci sia – viene a raffigurare l'incontro e lo scambio fra due civiltà, stimolati non da una volontà di dominio o di sopraffazione, ma se mai da curiosità e apertura verso quell'altro in cui, ancora una volta, si finisce poi per riconoscere se stessi. A questo proposito, è significativo che il marinaio si rivolga a Jamin-a apostrofandola "ma seu"230.
La tappa successiva segna non solo uno spostamento nello spazio verso est, nella città libanese di Sidone, ma anche – e soprattutto – un brusco salto al presente.231 Sidùn si apre, infatti, con le voci contemporanee del generale israeliano Ariel Sharon e del presidente statunitense Ronald Reagan, che loda "the constructive and corageous role of Italy [...] on the world stage"232. Parole, queste, che non possono non avere un effetto amaramente ironico, poste come sono a introdurre una canzone dedicata per intero alla distruzione di Sidone durante la guerra in Libano nel 1982:
Sidone è la città libanese che ci ha regalato oltre all'uso delle lettere dell'alfabeto anche l'invenzione del vetro. Me la sono immaginata, dopo l'attacco subito dalle truppe del generale Sharon del 1982, come un uomo arabo di mezz'età, sporco, disperato, sicuramente povero, che tiene in braccio il proprio figlio macinato dai cingoli di un carro armato. [...] La piccola morte a cui accenno nel finale di questo canto [...] va metaforicamente intesa come la fine civile e culturale di un piccolo paese: il Libano, la Fenicia, che nella sua discrezione è stata forse la più grande nutrice della civiltà mediterranea. [...]233
All'uomo arabo che piange disperato la morte del proprio figlio De André presta non solo la sua voce, qui lontanissima dal consueto timbro baritonale e matrice, invece, di un canto sofferto e partecipe come non mai – a tratti, persino, quasi strozzato – , ma anche il dialetto genovese in cui si esprimono tutti i personaggi dell'album; si tratta, insieme al fondamentale anacronismo iniziale, di una delle intuizioni maggiori del brano nello specifico e del disco in generale, perché comporta un istantaneo annullamento di ogni distanza e di ogni differenza a fronte, invece, dell'individuazione di una comune umanità.
Mentre, quindi, De André ci ricorda che ogni discorso sul passato ha valore soltanto quando è rivolto al presente234, allo stesso tempo ci mostra anche come, di fronte alla morte di un essere umano – e di un bambino, per giunta – e alla distruzione di una città che raffigura a sua volta la fine di una civiltà e insieme della Civiltà, il resto non possa che passare in secondo piano, e apparire in tutta la sua meschinità.
Al di sopra di un arrangiamento scarno ed essenziale dominato dal saz turco – sostenuto armonicamente soltanto nei momenti più intensamente drammatici – , il lamento individuale del padre per la morte del figlio si apre su immagini di fertilità e floridezza relative a un tempo ormai trascorso per sempre, a cui si contrappongono invece, subito dopo, quelle di sangue che caratterizzano la situazione attuale:
[...]
Tûmù duçe benignu
De teu muæ
Spremmûu 'n ta maccaia
De stæ, de stæ
E oua grûmmu de sangue ouëge
E denti de læte.
[...]235
A questa prima parte fa seguito, poi, una sezione centrale dal ritmo più concitato, contraddistinta dall'accumulo di immagini dalla chiara valenza metaforica legate alla devastazione animalesca – e quindi del tutto incivile – portata dai soldati, "chen arraggë / Cu'a scciûmma a a bucca"236, i quali non solo estirpano ogni segno di vita, ma anche ogni possibilità di proliferazione futura: "Perché de nostru de cianûa a u meü / Nu peua ciû cresce ni ærbu ni spica ni figgeü"237. Nell'ultima parte, infine, viene chiarita la metafora centrale del brano, nel parallelo fra la morte del bambino e la notte che cala sulla città in fiamme:
[...]
Ciao mæ 'nin, l'ereditæ
L'è ascusa
'N te sta çittæ
Ch'a brûxa, ch'a brûxa
In ta seia che chin-a
E in stu gran ciæu de feugu
Pe a teu morte piccin-a.238
Il lamento, allora, da individuale non può che farsi collettivo, e trovare espressione, alla fine del brano, non più attraverso le parole ma soltanto attraverso i suoni, i quali paradossalmente, da puri significanti, finiscono per assumere su di sé un significato altrimenti ineffabile. L'unica speranza, nella tragedia di Sidùn, è che quell'eredità "ascusa", nascosta, possa sopravvivere alla distruzione della città e della civiltà fenicia, venendo in qualche modo recuperata e tenuta in vita da altri.
Dal presente della guerra in Libano si torna, con la canzone successiva, al Medioevo della Repubblica. Al centro esatto dell'album, Sinàn Capudàn Pascià è ispirata alla vicenda – ripresa dall'aneddotica storica239 – di Scipione Cicala, marinaio genovese del XV secolo catturato dai mori durante una battaglia navale svoltasi nei pressi delle isole Gerbe e in seguito divenuto Gran Visir e Serraschiere del Sultano per i servigi resi all'Impero. Si tratta di uno snodo fondamentale nelle dinamiche nel disco, non solo perché la figura di Cicala riunisce su di sé l'ambientazione nuovamente genovese che caratterizzerà in modo più compiuto i due brani successivi – A píttima e A dumènega – e quella, invece, più genericamente mediterranea delle due canzoni precedenti, ma soprattutto perché la sua storia – l'unica davvero attestata nelle cronache cittadine – scredita la tradizione nel momento stesso in cui la recupera, facendosi beffe di qualunque patriottismo e contrapponendo a esso, invece, del puro e semplice opportunismo.
Sinàn Capudàn Pascià va così a inserirsi, a pieno titolo, nel discorso ideologico portato avanti da De André in Creuza de mä, a favore di una tradizione mai fine a se stessa o pretesto per la conservazione di un dato status quo, ma sempre, al contrario, occasione di apertura e di cambiamento. Non è un caso, del resto, che all'interno di un disco che è già di per sé, volutamente, tutt'altro che accurato dal punto di vista filologico, questo brano sia, soprattutto per quanto riguarda la musica, il meno "etnico" di tutti: a garantire una sonorità propriamente mediterranea è qui, infatti, soltanto l'oud arabo, mentre per il resto gli strumenti utilizzati sono quelli tipici del contemporaneo progressive rock, primo fra tutti l'emblematico synclavier.
La valenza allegorica della vicenda di Cicala è sottolineata, a livello di testo, da una struttura complessa e movimentata, data dall'intreccio di tre differenti sezioni. Alle strofe di carattere più propriamente narrativo, dedicate al racconto in prima persona del protagonista – eseguite, da parte di De André, in una voce insolitamente acuta, declamativa e cantilenante – ne fanno seguito altre di tipologia, invece, meta-narrativa – interpretate in modalità di semi-parlato e dal ritmo decisamente più accentuato – , in cui il personaggio si rivolge al suo ascoltatore presentandosi e dichiarando i suoi intenti. A inframmezzare queste due sezioni ci sono, infine, alcune strofe che potremmo definire gnomiche, alle quali viene affidato un sunto per immagini della morale opportunistica di Cicala, cantate a mezza voce e caratterizzate da una melodia orecchiabile e suadente. Particolare rilievo assume, in questo senso, la seconda strofa della canzone, elaborata a partire da quello che De André, nelle note ai testi, dichiara essere un "ritornello popolare di alcune località rivierasche tirreniche", e che, nell'antologia dei canti del mare curata da Virgilio Savona e Michele Straniero, ritroviamo effettivamente, in diverse forme e varianti, fra i canti tradizionali di un po' tutte le località costiere dell'Italia, non solo tirreniche ma anche adriatiche, e persino di alcune località dell'entroterra240:
[...]
In tu mezu du mä gh'è 'n pesciu tundu
Che quandu u vedde ë brûtte u va 'n sciù fundu
In tu mezu du mä gh'è 'n pesciu palla
Che quandu u vedde ë belle u vegne a galla.
[...]241
Di ambientazione genovese e cittadina, la successiva A píttima sancisce un significativo incontro della poetica deandreiana più classica con i linguaggi e le forme propri di Creuza de mä. Come in Sidùn, anche qui il protagonista è una vittima: della natura, innanzitutto, che non gli ha dato braccia abbastanza forti per fare il marinaio né mani abbastanza solide per fare il muratore, ma solo "'n pûgnu dûu ch'u pâ 'n nïu" e "'na cascetta larga 'n dïu"242; vittima, poi, necessariamente anche della società, dal momento che l'unico mestiere che le sue caratteristiche fisiche gli consentono di fare è quello di riscuotere i crediti dei debitori insolventi per conto di altri: il mestiere della pittima243, appunto, che aggiunge al disagio e alle difficoltà procurategli dalla sua debolezza e dalla sua gracilità motivo di disprezzo da parte dei debitori in questione e della società tutta, che vede in lui un parassita. Si tratta di un personaggio che ricorda molto il malato di cuore di Non al denaro non all'amore né al cielo: entrambi, infatti, sono costretti dalla loro precaria condizione fisica a vivere la vita all'ombra degli altri, senza poter mai pienamente godere di tutte le possibilità che essa offre; entrambi, però, trovano il modo per riscattarsi, e se il malato di cuore riesce alla fine a superare l'invidia grazie all'amore, la pittima finisce paradossalmente per riconoscere i suoi stessi persecutori come vittime:
[...]
Mi sun 'na píttima rispettä
E nu anâ 'n gïu a cuntâ
Che quandu a víttima l'è 'n strassé
Ghe dö du mæ.244
È la musica, comunque, a costituire qui l'elemento più originale e innovativo, soprattutto per quanto riguarda la caratterizzazione del personaggio – insieme protagonista e narratore – mediante il suono degli strumenti, il tema con la sua relativa linea ritmico-melodica e, infine, la stessa interpretazione vocale di De André. La pittima entra in scena sulle note del bouzouki greco, che introduce una melodia dal carattere incerto e altalenante a rendere la sua andatura instabile e la sua attitudine circospetta:
Dopo alcuni brevi ma efficaci cenni di presentazione resi in una modalità di canto vicina al parlato e contraddistinta da una leggera cantilena, la melodia strumentale torna alla ribalta nella seconda parte del brano, laddove al fondamentale bouzouki si sovrappone quel flauto a canna – impreziosito dal controcanto del flauto traverso – che, con il suo suono afono e soffocato, davvero non potrebbe caratterizzare meglio il protagonista della canzone.
L'ambientazione genovese e verosimilmente medievale viene mantenuta anche in A dumènega, brano ispirato al costume – in voga nella Genova repubblicana – di concedere la passeggiata domenicale per la città alle prostitute, di norma relegate nel quartiere dei bordelli. La domenica, quindi, da giorno tradizionalmente consacrato a Dio e dunque alla conservazione dell'autorità e dello status quo, diviene qui, provocatoriamente, un giorno di festa popolare, una sorta di carnevale bachtiniano dato non solo da una eccezionale e momentanea sospensione delle regole, ma da un vero e proprio capovolgimento del culto ufficiale in senso accentuatamente grottesco e corporale. Scrive Bachtin, nel suo fondamentale saggio L'opera di Rabelais e la cultura popolare:
[...] La cultura ufficiale del Medioevo è caratterizzata da un tono esclusivamente serio. [...] Tuttavia questa serietà esclusiva e unilaterale della ideologia ufficiale della chiesa rese necessario legalizzare fuori di essa, cioè fuori dal culto, dal rito e dal cerimoniale ufficiali e canonizzati, l'allegria, il riso e lo scherzo che erano stati banditi. [...] Quasi tutti i riti della festa dei folli sono abbassamenti grotteschi dei diversi riti e simboli religiosi, con la loro trasposizione su un piano materiale e corporeo. [...] La festa era un'interruzione temporanea di tutto il sistema ufficiale, con i suoi divieti e le sue barriere gerarchiche [...] per penetrare nella sfera della libertà utopica. [...]245
Non è certo un caso, allora, che la sfilata delle prostitute durante la loro passeggiata domenicale si configuri, in A dumènega, come una vera e propria processione – parodia, in quanto tale, della processione religiosa appartenente al culto cristiano – , guidata dalla "madama" anziché dal prete e partecipata con fervore dal popolo tutto, accorso al passaggio delle "figge du diäu"246:
Quand' ä dumènega fan u gïu
Cappellín neuvu, neuvu u vestïu
Cu' a madama, a madama 'n testa
O belín che festa, o belín che festa.
Tûtti apreuvu ä prucessiùn
Da Teresin-a, du Teresùn
Tûtti a mià ë figge du diäu
Che belín de lou, che belín de lou.
[...]247
L'utilizzo del dialetto genovese assume peraltro, in questa canzone, un significato particolare248, dal momento che anch'esso, come i comportamenti e i rituali carnevaleschi descritti nel testo, è espressione diretta di quella vitalità e soprattutto di quella autenticità di cui solo il popolo – secondo De André, come già secondo Pasolini – può essere veramente portatore, e che costituisce l'unico possibile argine al dilagare di quei codici borghesi già individuati come uniformanti e repressivi nelle Lettere luterane e negli Scritti corsari del decennio precedente. La morale borghese, in A dumènega, viene smascherata come pretesto per la conservazione di un dato ordine socio- economico attraverso il personaggio del direttore del porto, il quale "ghe vedde l'ou/'N te quelle scciappe a reposu da u lou"249, e mentre in pubblico si unisce ipocritamente, con l'occhio pieno di falsa indignazione, al coro degli improperi rivolti alle prostitute a passeggio, dentro di sé gioisce invece dei proventi derivati alla città proprio dai bordelli, e destinati abitualmente ai lavori portuali.
Il conflitto fra la vitalità del popolo e il codice etico borghese esplode in tutta la sua forza soprattutto nel ritornello, laddove il testo scandisce gli insulti lanciati contro le prostitute dalla gente che le insegue per tutta la città – da Pianderlino alla Foce, da Carignano a Ponticello: se da un lato, infatti, questi sono senz'altro frutto del disprezzo che, nell'ottica borghese, va a esse riservato, dall'altro esprimono anche una fondamentale attrazione nei loro confronti, e una tensione e una carica vitali tutt'altro che facili da nascondere o da reprimere, e peraltro rese in tutta la loro forza e in tutta la loro intensità dalla musica in Re maggiore, con la chitarra andalusa e i mandolini – acustici ed elettrificati – a rincorrersi l'un l'altro.
Il viaggio di Creuza de mä si apre con un ritorno, e non può che concludersi con una partenza. D'ä mæ riva, la settima e ultima traccia del disco, è un canto d'addio: il marinaio lascia Genova in controsole e chiede alla moglie di perdonargli il magone, mentre lei, da terra, agita il suo fazzoletto chiaro in segno di saluto, e con un sorriso amaro guarda verso il mare. Mentre la title track si chiudeva sfumando tra i suoni del mercato del pesce, D'ä mæ riva si apre invece sul rumore dei flutti, e sugli arpeggi della chitarra ottava suonata dallo stesso De André a rendere il lento allontanarsi della nave da riva, e il suo saliscendi sulle onde:
È qui che si innesta il canto solitario e un po' lamentoso del protagonista, accompagnato per il resto soltanto da leggerissimi bassi e – a partire dal primo ritornello – da suoni accordali realizzati con ogni probabilità dal synclavier, suggestivi nel loro effetto, contemporaneamente, di lontananza e di profondità. Nella seconda parte del brano, la nave si trova ormai in mare aperto: il marinaio, allora, non può che affacciarsi al suo baule, dove, fra camicie e coperte, conserva un mandolino, un calamaio di legno e, in una berretta nera, la foto della moglie da ragazza, avvolta nella naftalina.
204. Pur mantenendo come fondamentali punti di riferimento il Dizionario italiano genovese di Adriano Agostino (Genova, Coedit, 2013) e il Grande dizionario della lingua genovese a cui rimanda il sito dell'Academia Ligùstica do Brenno (http://bit.ly/2lY8xmr), considerato l'utilizzo del tutto peculiare che De André fa del dialetto genovese, per la trascrizione dei testi (e, in generale, delle parole in essi contenute) dell'album Creuza de mä si è scelto di adottare, in linea di massima, la stessa grafia utilizzata dal cantautore.
205. Il Grande dizionario della lingua genovese la indica come parola intraducibile, e propone l'italianizzazione "crosa".
206. Eugenio Montale, Ossi di seppia; in Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 1984, pp. 3-105.
207. Omero, Odissea, traduzione di G. Aurelio Privitera, Milano, Mondadori, 1991.
208. Riccardo Bertoncelli (a cura di), Belin, sei sicuro? Storia e canzoni di Fabrizio De André, Firenze, Giunti, 2012, p. 125.
209. Cfr. Ferdinando Molteni e Alfonso Amodio, Controsole. Fabrizio De André e Creuza de mä, Roma, Arcana, 2010, pp. 23-24.
210. Si veda il primo capitolo.
211. Fabrizio De André citato in Molteni-Amodio, Controsole, p. 19.
212. Mauro Pagani intervistato in Fondazione Fabrizio De André-Rai Trade (a cura di), Dentro Faber: Genova e il Mediterraneo, Milano, RCS Quotidiani, 2011.
213. Cfr. Fabrizio De André citato in Molteni-Amodio, Controsole, p. 20 e p. 59.
214. La chitarra ottava non sarebbe da considerarsi, di per sé, un vero e proprio strumento etnico, non fosse che essa viene principalmente utilizzata in ambiente folk e spesso associata, peraltro, al mandolino.
215. Si confrontino, a questo proposito, le parole contenute nei testi di Creuza de mä con le corrispondenti riportate nel Dizionario italiano genovese di Adriano Agostino: si noterà che le differenze non riguardano soltanto la grafia, ma in primo luogo i suoni, la fonetica stessa.
216. Cfr. anche Luca Casarotti, Trent'anni di Creuza de mä, 11 luglio 2014, http://bit.ly/2ljvJfH.
217. Cfr. Béla Bartók, Scritti sulla musica popolare, traduzione di Angelo Brelich, Torino, Boringhieri, 1977.
218. Cfr. i parlati dei live 1984, 1992/1993, 1997 e 1998 in Fabrizio De André, I concerti, Milano, Nuvole Production, 2012.
219. Fabrizio De André, M'innamoravo di tutto – Il concerto 1998; ne I concerti.
220. Pier Paolo Pasolini, Canzoniere italiano. Antologia della poesia popolare, Milano, Garzanti, 1992.
221. Pier Paolo Pasolini, Lettere luterane, Milano, Garzanti, 2009; Scritti corsari, Milano, Garzanti, 2008.
222. Pasolini, Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino; in Scritti corsari, p. 53.
223. Ivi, p. 54.
224. //"Ombre di facce, facce di marinai / Da dove venite, dov'è che andate" / Da un posto dove la luna si mostra nuda / E la notte ci ha puntato il coltello alla gola / E a montare l'asino c'è rimasto Dio / Il Diavolo è in cielo e ci si e fatto il nido // Fabrizio De André e Mauro Pagani, Creuza de mä; in Creuza de mä, Milano, Ricordi, 1984. Le traduzioni dal genovese dei brani citati in questo capitolo si basano in gran parte su quelle riportate all'interno del disco, e vanno più che altro considerate traduzioni di servizio.
225. //facce di marinai//facce da tagliaborse// Ibid.
226. //corda marcia d'acqua e di sale// Ibid.
227. //E nella barca del vino ci navigheremo sugli scogli / Emigranti della risata con i chiodi negli occhi / Finché il mattino crescerà da poterlo raccogliere / Fratello dei garofani e delle ragazze / Padrone della corda marcia d'acqua e di sale / Che ci lega e ci porta in una mulattiera* di mare.// Ibid.
228. Fabrizio De André citato in Dentro Faber: Genova e il Mediterraneo.
229. //lupa di pelle scura// Fabrizio De André e Mauro Pagani, Jamin-a; in Creuza de mä.
230. //sorella mia// Ibid.
231. Non è facile collocare nel tempo la narrazione di Creuza de mä. I riferimenti presenti nei vari brani, comunque, ci riconducono per lo più ai secoli medievali della Repubblica genovese.
232. Ronald Reagan nella registrazione posta in apertura a Sidùn.
233. Fabrizio De André in una puntata di Mixer (Rai 2), 1984; trascrizione in Claudio Sassi e Walter Pistarini, De André talk. Le interviste e gli articoli della stampa d'epoca, Roma, Coniglio, 2008, p. 275.
234. "Voglio dire, la storia cosa la studiamo a fare, tanto per avere del nozionismo oppure la studiamo perché ci possa servire, perché attraverso i ricorsi storici, la storia si riproduce quasi come le cellule del fegato, quando il fegato funziona [...]"; Fabrizio De André nell'intervista riportata in Molteni-Amodio, Controsole, p. 62.
235. //Tumore dolce benigno / Di tua madre / Spremuto nell'afa umida* / Dell'estate, dell'estate // E ora grumo di sangue orecchie / E denti di latte.// Fabrizio De André e Mauro Pagani, Sidùn; in Creuza de mä. Come già creuza, anche maccaia e un termine tutt'altro che semplice da rendere in italiano, indicando esso una condizione meteorologica tipicamente ligure e nello specifico genovese, caratterizzata dalla presenza del vento di scirocco, da un cielo coperto e da un elevato tasso di umidità.
236. //cani arrabbiati / Con la schiuma alla bocca// Ibid.
237. //Perché di nostro dalla pianura al molo / Non possa più crescere né albero né spiga né figlio// Ibid.
238. //Ciao bambino mio, l'eredità / È nascosta / In questa città / Che brucia, che brucia // Nella sera che scende / E in questa grande luce di fuoco / Per la tua piccola morte// Ibid.
239. "Sinàn Capudàn Pascià l'ho ricavato da una notizia, due righe lette in un volumone del 1944 sottratto alla biblioteca di mio padre e intitolato Mediterraneo. Il fatto storico esiste ed è alla base del testo, ma il resto è immaginato [...]"; Fabrizio De André citato in Molteni-Amodio, Controsole, p. 39.
240. Cfr. A. Virgilio Savona e Michele L. Straniero (a cura di), I canti del mare della tradizione popolare italiana, Milano, Mursia, 1980, p. 194, p. 221, p. 252, p. 498, p. 525; cfr. anche p. 75, p. 183, p. 270, p. 345, p. 408, p. 510.
241. //In mezzo al mare c'è un pesce tondo / Che quando vede le brutte va sul fondo / In mezzo al mare c'è un pesce palla / Che quando vede le belle viene a galla.// Fabrizio De André e Mauro Pagani, Sinàn Capudàn Pascià; in Creuza de mä.
242. //un pugno duro che sembra un nido//un torace largo un dito// Fabrizio De André e Mauro Pagani, A píttima; in Creuza de mä.
243. "[...] ancora oggi sinonimo di persona insistente, noiosa e appiccicosa [...]"; Fabrizio De André in riferimento alla pittima nelle note ai testi di Creuza de mä.
244. //Io sono una pittima rispettata / E non andare in giro a raccontare / Che quando la vittima è uno straccione / Gli do del mio// De André, A píttima.
245. Michail Bachtin, L'opera di Rabelais e la cultura popolare, traduzione di Mili Romano, Torino, Einaudi, 1995, pp. 83-100.
246. //figlie del diavolo// Fabrizio De André e Mauro Pagani, A dumènega; in Creuza de mä.
247. //Quando alla domenica fanno il giro / Cappellino nuovo, nuovo il vestito / Con la madama, la madama in testa / Cazzo* che festa, cazzo che festa. // Tutti dietro alla processione / Della Teresina, del Teresone / Tutti a guardare le figlie del diavolo / Che cazzo di lavoro, che cazzo di lavoro.// Ibid. Si noti che il termine belín, tutt'oggi intercalare molto comune nel dialetto genovese, ha una connotazione molto meno volgare del suo corrispondente italiano, e si adatta pertanto benissimo al tono di A dumènega.
248. Secondo Lorenzo Coveri il dialetto esprime in De André una "trasgressione antiborghese"; cfr. I dialetti (e le lingue) di De André; in Elena Valdini (a cura di), Volammo davvero. Un dialogo ininterrotto, Milano, Bur, 2007, p. 273.
249. //ci vede l'oro / In quelle chiappe a riposo dal lavoro// De André, A dumènega.