L'operazione compiuta ne La città vecchia, invece, è pressoché speculare a quella dei due casi appena descritti. Nonostante il cantautore, infatti, non dichiari in modo esplicito il suo debito letterario nei confronti di Umberto Saba, già il titolo della canzone ci dimostra come l'omonima poesia contenuta nella prima sezione del Canzoniere costituisca per questo brano un modello letterario tutt'altro che secondario, e come De André lo componga con il testo della lirica di Saba bene in mente:
Spesso, per ritornare alla mia casa
prendo un’oscura via di città vecchia.
[...]
Qui tra la gente che viene che va
dall’osteria alla casa o al lupanare,
dove son merci ed uomini il detrito
di un gran porto di mare,
io ritrovo, passando, l’infinito
nell’umiltà.
[...]
Qui degli umili sento in compagnia
il mio pensiero farsi
più puro dove più turpe è la via.167
Ad accomunare i due testi non è solo l'ambientazione nei bassifondi di una città di mare – connotata peraltro, in entrambi i casi, in senso autobiografico168 – o la presenza di personaggi appartenenti agli strati inferiori della società, ma anche e soprattutto la disposizione dell'autore nei loro confronti: Saba afferma di sentire, in compagnia degli umili, il suo pensiero "farsi/più puro dove più turpe è la via"; per quanto riguarda La città vecchia, essa è solo una delle tante canzoni dedicate da De André ai reietti e agli emarginati, verso i quali egli dimostra sempre – e da sempre – una particolare simpatia.
Il fatto che, quindi, la morale sia nei due testi molto simile non deve stupire più di tanto; ciò che importa, invece, è osservare come il testo di De André, pur con il suo enorme debito letterario nei confronti di quello di Saba, presenti un messaggio del tutto coerente con l'ideologia del cantautore, tanto che egli, a distanza di trent'anni, si dichiarerà ancora particolarmente affezionato a questo brano, e alla convinzione che ci sia "ben poco merito nella virtù e ben poca colpa nell'errore".169
La principale differenza fra il componimento di Saba e quello di De André riguarda se mai, più che il loro contenuto, la loro forma. Mentre, infatti, le liriche del Canzoniere sono contraddistinte da una musicalità interna particolarmente accentuata, la quale rimanda ovviamente alle caratteristiche originarie della canzone come forma letteraria associata alla musica e destinata alla performance orale poi perdutesi nel corso del tempo, il testo del brano di De André, pur essendo meno ricco, in sé e per sé, di quella musicalità che caratterizza la lirica di Saba, nasce sul respiro della musica, ed è quindi alla musica che lo accompagna inestricabilmente legato:
È la mazurca introdotta dal clarinetto iniziale, quindi, a dettare ne La città vecchia buona parte delle caratteristiche del testo, e in particolare a conferirgli quella struttura metrica così adatta alla ritmica e alla melodia sottostanti; privata dell'elemento musicale, la canzone nel complesso difficilmente potrebbe avere l'aspetto che effettivamente ha, e nemmeno il testo di per sé potrebbe essere goduto e apprezzato appieno.
IV – 3. Le "belle infedeli"
Degli undici brani che compongono la scaletta di Canzoni, come abbiamo visto, le traduzioni sono ben sette. Questo numero potrebbe forse sorprendere, se si pensa che, in fin dei conti, alla traduzione Fabrizio De André si era già dedicato altre volte in passato, ma i brani tradotti in senso vero e proprio avevano fino ad allora rappresentato una percentuale davvero minima della sua produzione; dopo Canzoni, peraltro, le uniche altre traduzioni da lui realizzate saranno Nancy e Avventura a Durango, pubblicate rispettivamente in Volume 8 nel 1975 e in Rimini nel 1978.170 L'album antologico del 1974 rappresenta dunque un'eccezione notevole anche da questo punto di vista, e anche in questo caso il fenomeno va spiegato innanzitutto, e messo in relazione, con la crisi creativa e personale che il cantautore stava attraversando all'epoca. È lui stesso, del resto, a fare una dichiarazione significativa in proposito, durante un concerto del tour in teatro del 1992-1993:
A me [...] è sempre sembrato opportuno, [...] quando un autore non è abbastanza in vena per assumersi in proprio la responsabilità e l'onere d'un'opera sua, che si metta a fare delle traduzioni. Si raggiungono nell'immediato due scopi precisi: quello di esercitarsi e quello di dimostrarsi anche soggettivamente umili; io credo che ci sia bisogno di umiltà in qualsiasi mestiere si scelga di fare nella propria vita. [...]171
Poiché, quindi, le traduzioni rappresentano non solo la maggior parte del materiale presente in Canzoni, ma anche, evidentemente, l'espressione più naturale di questa fase di crisi dal punto di vista creativo e compositivo, non possiamo non dedicare loro un'ampia parte di questo capitolo, nel tentativo di delineare i caratteri che questa operazione assume in Fabrizio De André e allo stesso tempo di definire il suo significato in senso più ampio.
Sarà bene chiarire, innanzitutto, che cosa significa esattamente tradurre una canzone. La traduzione intesa nel senso più tecnico del termine, infatti, è una pratica che riguarda solitamente la resa in una lingua diversa da quella di partenza – e cioè da quella in cui si trova il testo d'origine – di un testo verbale.172 Come ormai ben sappiamo, però, il testo verbale è la realizzazione concreta di una sola delle tre componenti della canzone, la quale, per realizzarsi appieno, si affida non soltanto alla componente letteraria relativa al testo, ma anche alla musica e alla performance.
Se tradurre una canzone significherà quindi inevitabilmente, innanzitutto, rendere il suo testo verbale in una lingua diversa da quella d'origine, d'altro canto questa resa non potrà che implicare, a sua volta, modifiche più o meno significative e sostanziali alla musica e alle modalità interpretative del brano in questione. Da pratica prettamente linguistica e inter-linguistica qual è, in altre parole, la traduzione diverrà necessariamente in una canzone anche pratica inter-semiotica. L'esempio più interessante offertoci da Canzoni a questo proposito è probabilmente quello di Fila la lana173, il brano di Robert Marcy che De André aveva già tradotto e pubblicato nel 1965 e che qui viene riproposto secondo un'interpretazione e un arrangiamento – merito, quest'ultimo, di Gian Piero Reverberi – decisamente più raffinati.
Al di là di considerazioni puramente linguistiche che – trattandosi di una traduzione dal francese – in questa sede non mi competono, vorrei notare come la traduzione complessiva realizzata da De André vada ben oltre l'aspetto più propriamente testuale, e coinvolga, in particolare, due diverse operazioni fra loro collegate. Innanzitutto, ogni riferimento all'autore contemporaneo del brano viene eliminato, e al titolo viene invece apposta l'indicazione "Da una canzone popolare francese del XV secolo"; in questo modo, l'ambientazione medievale già conferita da Marcy al suo componimento e l'inevitabile richiamo alla figura del menestrello-cantastorie che ne consegue finiscono per essere, nella versione di De André, non solo radicalizzate, ma addirittura meta- testualizzate: nella cornice creata ad hoc dal cantautore, Fila la lana cessa di essere un semplice brano dal gusto medievaleggiante per divenire un brano medievale a tutti gli effetti, recuperato tramite una modalità che è, per l'appunto, proprio quella tipica del menestrello. La seconda operazione riguarda invece la musica e l'interpretazione, le quali accentuano ulteriormente l'aspetto che abbiamo appena descritto.
A differenza della celebre versione francese eseguita da Jacques Douai174, in cui l'impressione che si ricava dall'arrangiamento e dall'esecuzione è quella di una narrazione appiattita sulla nostalgia della protagonista, che tutto avvolge e allo stesso tempo tutto da sé distanzia, nella canzone di De André tanto gli arrangiamenti – arricchiti da rulli di tamburi, "avvolgenti fanfare di trombe vagamente progressive"175 e una chitarra in funzione più spiccatamente melodica – quanto l'interpretazione del cantautore – più severa nelle strofe, più dolce nel ritornello – contribuiscono invece a immetterci direttamente nella vicenda, e a sottolinearne insieme tutta la profondità.176
La traduzione, però, rimane comunque in primo luogo un'operazione squisitamente linguistica, e in quanto tale va presa in considerazione anche in un caso del tutto complesso e peculiare qual è quello della canzone. Se infatti, secondo Roman Jakobson, "Equivalence in difference is the cardinal problem of language and the pivotal concern of linguistics"177, ancora più arduo sarà realizzare una qualche equivalenza fra due testi in versi, e per giunta dotati di una imprescindibile dimensione musicale come quelli delle canzoni. Jakobson ritiene che già la poesia di per sé sia per definizione intraducibile, e che per renderla da una lingua in un'altra l'unica soluzione possibile sia quella da lui definita "creative transposition"178; in una canzone, poi, il tutto è – da questo punto di vista – ulteriormente complicato dalla presenza della musica, a cui il traduttore-interprete deve pur sempre adeguare non solo il testo tradotto, ma anche la propria esecuzione cantata. Tenendo presenti queste difficoltà intrinseche, cerchiamo ora di mettere a poco a poco a fuoco il metodo traduttivo adottato da De André, partendo dalle sue note dichiarazioni in merito e arrivando poi a esemplificarle attraverso alcuni brani di Canzoni.
Ecco come il cantautore commenta le sue traduzioni di Leonard Cohen – nel dettaglio Nancy e Giovanna d'Arco – , appena eseguite dal vivo durante il tour in teatro del 1992-1993:
Ognuno ha il suo modo di tradurre: io naturalmente ho il mio. Di solito non bado molto alla letteralità della traduzione [...] Mi interessa di più entrare nello spirito della canzone [...] confortato in questo senso da quanto diceva il nostro forse maggior critico letterario del Novecento, Benedetto Croce, che distingueva le traduzioni in due categorie: quelle brutte e fedeli e quelle belle e infedeli. E io, di fronte a quello che, personalmente e modestamente, reputo essere il bello, sono disposto a qualsiasi tipo di infedeltà. [...]179
Si tratta di parole importanti, non solo – non tanto – perché De André mostra di individuare in Croce e nella sua Estetica180 un fondamentale punto di riferimento teorico, ma soprattutto perché la traduzione come "bella infedele" gli consente di aggirare gli ostacoli che abbiamo appena descritto, legati alle difficoltà nel rendere un testo poetico in un'altra lingua e alla necessità di conservare la struttura musicale del brano di partenza anche alla base del testo tradotto. Sacrificare la fedeltà alla bellezza, comunque, non significa ignorare o addirittura bistrattare il senso del testo che si va a tradurre; al contrario, se da un lato il traduttore di canzoni deve sempre prestare particolare attenzione agli aspetti formali e deve ricercare un'adeguata resa della dimensione metrico-ritmica del testo di partenza nella lingua d'arrivo, dall'altro quel "tradimento" che egli compie nei confronti del brano originario presuppone, se mai, una comprensione profonda del suo significato, talmente profonda da risultare poi in una sua appropriazione e rielaborazione assolutamente personali. Paradossalmente, quindi, l'infedeltà verso il testo originario diviene, in fin dei conti, una modalità attraverso la quale il traduttore non solo manifesta il suo rispetto del senso del testo così come questo era stato inteso dall'autore, ma dimostra anche, mediante la sua rielaborazione, quanto la comprensione vera e profonda di quel senso possa stimolare ancora molto di nuovo e originale. Del resto, era già Walter Benjamin a notare, nel suo fondamentale saggio Die Aufgabe des Übersetzers – che citiamo qui nella traduzione inglese di Harry Zohn – quanto relativi fossero i concetti di fedeltà e infedeltà in ambito traduttologico:
The task of the translator consists in finding that intended effect [Intention] upon the language into which he is translating which produces in it the echo of the original. [...] The traditional concepts in any discussion of translations are fidelity and license [...] These ideas seem to be no longer serviceable to a theory that looks for other things in a translation than reproduction of meaning. [...] Fidelity in the translation of individual words can almost never fully reproduce the meaning they have in the original. For sense in its poetic significance is not limited to meaning, but derives from the connotations conveyed by the word chosen to express it. [...]181
La prima condizione per realizzare una "bella infedele", quindi, è quella di evitare a tutti i costi una resa letterale del testo originario; essa, infatti, non solo renderebbe particolarmente difficoltoso l'adeguamento della metrica della lingua d'arrivo a quella della lingua di partenza e del testo tradotto alla sottostante struttura ritmico-melodica ereditata dal brano che si va a tradurre, ma rischierebbe per giunta di intrappolare il suo significato nel tentativo di rendere in modo esatto tutti i suoi singoli "code-units"182, tra i quali – sappiamo da Jakobson – non vi è mai una piena equivalenza. Il traduttore deve perciò andare necessariamente oltre la resa letterale delle singole parole, e considerare il testo da tradurre, più che altro, nel suo insieme. Per quanto riguarda De André, un'importante testimonianza del suo metodo traduttivo in questo proposito ci viene, ancora una volta, dall'archivio di Siena, e in particolare da un blocco note risalente alla prima metà degli anni Settanta e contenente alcuni testi di Canzoni in fase di lavorazione.183
In questa sede, del suddetto documento ci interessa soprattutto la prima pagina184, dedicata all'elaborazione del testo de Le passanti tradotto dalla poesia francese di Antoine Pol che Brassens aveva a sua volta musicato qualche anno prima. De André suddivide il foglio in due colonne: in quella di sinistra possiamo leggere una resa letterale del testo di Pol, con l'indicazione a margine dello schema delle rime e delle assonanze che il cantautore intende mantenere nella versione italiana; a destra troviamo, invece, parti della traduzione che diverrà poi quella definitiva incisa sul disco, la quale compare qui in una redazione non ancora completa e caratterizzata dalla presenza di numerosi buchi e altrettanti appunti in prosa in cui De André riassume i concetti sui quali intende evidentemente ancora lavorare.
Il documento è estremamente significativo, per due ragioni. Innanzitutto, esso ci mostra come il cantautore si serva della resa letterale nella colonna di sinistra come di una traduzione di servizio, a partire dalla quale realizzare invece un testo che – pur essendo anch'esso, di fatto, una traduzione – diviene, in fin dei conti, semi-autonomo da quello di Pol.185 In secondo luogo, dalla lettura di questo documento notiamo come, a livello macro-strutturale, De André tutto sommato si attenga all'organizzazione del testo originario, sia per quanto riguarda la metrica e lo schema delle rime e delle assonanze, sia per la distribuzione e la successione di quelli che sono pur sempre alcuni identificabili blocchi tematici; considerando, invece, il livello micro-strutturale, ci accorgiamo che è proprio qui che il cantautore va maggiormente a intervenire in senso originale, rendendo il testo di Pol in una modalità conforme innanzitutto alla sua poetica e alla sua sensibilità.186
Non ci resta, ora, che esemplificare quanto detto fin qui mediante l'analisi più approfondita di due traduzioni presenti nel disco. Per ragioni prettamente legate alle mie competenze linguistiche, la scelta è ricaduta su due traduzioni dall'inglese, e nello specifico su Via della Povertà – versione italiana, realizzata in collaborazione con Francesco De Gregori, di Desolation Row di Bob Dylan – e Giovanna d'Arco – elaborata a partire da Joan of Arc di Leonard Cohen.
Desolation Row è il brano conclusivo di Highway 61 Revisited, ed è l'unico capitolo acustico all'interno di un album che consacra, invece, il passaggio di Dylan all'elettrico già annunciato dal precedente Bringing It All Back Home. Su una base di due sole chitarre – una ritmica e l'altra, invece, più propriamente melodica – dieci strofe di dodici versi ciascuna corrispondono ad altrettanti quadri narrativo- descrittivi ambientati, per l'appunto, nel "vicolo della desolazione" richiamato dal titolo187, e popolato da personaggi di ogni tipo, in gran parte provenienti dalla letteratura.
Il narratore, accompagnato dalla sua signora, si sofferma a osservarli188, e finisce come risucchiato in un vortice dove il dolore, la solitudine e l'alienazione di ciascuno assumono una connotazione sempre più tragica e una dimensione sempre più profonda, fino a divenire, nei quadri finali, psicosi collettiva e deriva di tutti, dell'umanità intera. È un brano estremamente complesso, Desolation Row, non tanto dal punto di vista formale quanto piuttosto per il suo contenuto, dove le suggestioni – letterarie, in primis, ma anche storiche, politiche, religiose – si moltiplicano, e dove le diverse e numerose interpretazioni possibili189, anziché escludersi a vicenda, instaurano una dialettica interna che sottolinea ulteriormente, se mai, tutta la forza del testo di Dylan.
Un brano, questo è certo, tutt'altro che semplice da tradurre, conservandone per giunta interamente la musica e piegando a essa una lingua, come l'italiano, con una logica metrica fondamentalmente diversa da quella dell'inglese del testo di partenza. A questo proposito, bisogna dire che la forma della canzone è l'elemento a cui De André e De Gregori si mantengono più fedeli, nella loro resa, non solo adattando, come è necessario, i versi in italiano alla sottostante frase musicale con le sue caratteristiche, ma conservandone la struttura complessiva con la sua suddivisione in strofe da dodici versi ciascuna190 e cercando persino di riprodurne, per quanto possibile, lo schema delle rime:
They're selling postcards of the hanging
They're painting the passports brown
The beauty parlor is filled with sailors
The circus is in town.
Here comes the blind commissioner
They've got him in a trance
One hand is tied to the tight-rope walker
The other is in his pants.
And the riot squad, they're restless
They need somewhere to go
As lady and I look out tonight
From Desolation Row. [...]191
Il salone di bellezza in fondo al vicolo
È affollatissimo di marinai
Prova a chiedere a uno che ore sono
E ti risponderà: "Non l'ho saputo mai".
Le cartoline dell'impiccagione
Sono in vendita a cento lire l'una
Il commissario cieco dietro la stazione
Per un indizio ti legge la sfortuna.
E le forze dell'ordine, irrequiete
Cercano qualcosa che non va
Mentre io e la mia signora ci affacciamo stasera
Su Via della Povertà. [...]192
Confrontando la prima strofa della traduzione con quella dell'originale di Dylan notiamo che, allo scopo di attenersi alla fondamentale dimensione musicale del brano, De André e De Gregori non solo redistribuiscono e gestiscono molto liberamente le immagini del testo di partenza – cosicché non vi è mai una esatta corrispondenza a livello di singolo verso – , rendendole peraltro all'interno di una sintassi meno concitata e più cadenzata di quella dell'originale, ma si dotano anche di una metrica estremamente elastica, la quale, più che rispondere a una logica interna al testo in italiano, segue appunto l'andamento della musica.
In generale, possiamo dire che sia proprio l'esigenza di mantenere la linea ritmico-melodica del brano di Dylan a spiegare molte – se non addirittura la maggior parte – delle scelte traduttive compiute qui da De André e De Gregori; scelte che, peraltro, finiscono inevitabilmente per influenzare, oltre alla forma, anche il contenuto e il significato della canzone. Il titolo stesso del brano, per esempio, diventa in italiano Via della Povertà per ragioni, possiamo presumere, legate innanzitutto alla necessità di far terminare il verso con una parola tronca, in modo da rispecchiare il modulo metrico suggerito da Desolation Row e da realizzare con relativa facilità la rima alternata nel finale di ogni strofa. La scelta di sostituire il concetto di "povertà" a quello di "desolazione" – che avrebbe rappresentato la traduzione più immediata dell'inglese "desolation" – implica però, d'altra parte, una connotazione più concreta e materiale, che va a sovrapporsi a quella condizione delineata invece da Dylan, più che altro, in termini esistenziali e umani.
Effettivamente, la critica più palese rivolta, in certi passaggi, ad alcuni aspetti di carattere politico e sociale è forse il tratto che, a livello di significato, più differenzia la traduzione di De André e De Gregori dal testo di partenza; non solo, a mio parere, perché "what in Dylan is merely surreal is slanted in De André towards a sardonic moral judgement, and there is an ethical engagement with the characters"193 – come giustamente scrive Anita Joy Weston – , ma anche perché De André, laddove possibile, coglie l'occasione di portare avanti, più nello specifico, quel discorso contro il potere e contro l'autorità che tanto spazio aveva già ricevuto nella sua produzione precedente e continuerà a ricevere anche in quella successiva. Così, mentre nella prima strofa di Desolation Row "the riot squad, they're restless / They need somewhere to go", nell'equivalente di Via della Povertà tale stato di agitazione viene non solo ulteriormente rimarcato attraverso l'ossimoro "le forze dell'ordine, irrequiete", ma anche collegato con la necessità, connotata in senso pretestuoso, di trovare "qualcosa che non va".
Allo stesso modo, mentre i personaggi dell'ottava strofa di Dylan appartengono a una "superhuman crew", nella traduzione di De André e De Gregori essi sono invece, semplicemente, "poliziotti", i quali "fanno il loro solito lavoro / Metton le manette intorno ai polsi / A quelli che ne sanno più di loro". Se, infine, il riferimento ai campi di sterminio nazisti nella medesima strofa di Desolation Row non è mai esplicitato, ma viene insinuato proprio mediante l'aggettivo "superhuman", che richiama allo stesso tempo l'idea nietzschiana di "Übermensch" e le teorie di superiorità razziale, in Via della Povertà l'allusione è evidente, ed è palesata all'interno di una sequenza dal carattere tragicomico in cui "I prigionieri vengon trascinati / Su un calvario improvvisato lì vicino / E il caporale Adolfo li ha avvisati / Che passeranno tutti dal camino". Al di là, comunque, di quelle che sono le differenze relative a questo aspetto e in generale al tono e all'atmosfera dei due brani – più lirici e surreali in Dylan, più prosastici e sardonici in De André e De Gregori – la strategia traduttiva adottata in Via della Povertà consiste sostanzialmente in una resa del tutto libera dei singoli quadri, all'interno dei quali le immagini originarie vengono spesso conservate ma sempre adattate alle esigenze legate alla resa in italiano, e non di rado unite a immagini, invece, del tutto originali, le quali vanno a moltiplicare poliedricamente le suggestioni del testo di partenza e allo stesso tempo conferiscono alla traduzione – pur senza dubbio minore rispetto al capolavoro dylaniano – una sua fondamentale coerenza interna:
[...]
Ophelia, she's 'neath the window
For her I feel so afraid
On her twenty-second birthday
She already is an old maid.
To her death is quite romantic
She wears an iron vest
And her profession's her religion
Her sin is her lifelessness.
And though her eyes are fixed upon
Noah's great rainbow
She spends her time peeking into
Desolation Row. [...]194
[...]
I tre Re Magi sono disperati
Gesù bambino è diventato vecchio
E Mr. Hyde piange sconcertato
Vedendo Jekyll che ride nello specchio.
Ofelia è dietro la finestra
Mai nessuno le ha detto che è bella
A soli ventidue anni
È già una vecchia zitella.
La sua morte sarà molto romantica
Trasformandosi in oro se ne andrà
Per adesso cammina avanti e indietro
In Via della Povertà. [...]195
Se Via della Povertà si configura ancora, in parte, come un divertissement, così non è nel caso di quella che, a mio parere, è la più riuscita delle traduzioni dall'inglese di Fabrizio De André, e cioè Giovanna d'Arco. Qui il brano di partenza è Joan of Arc di Leonard Cohen, pubblicato appena tre anni prima sul celebre Songs of Love and Hate e dedicato alla "pulzella d'Orléans", l'eroina medievale che, dopo aver condotto l'esercito francese in battaglia durante la guerra dei Cent'anni ed essere caduta in mano agli inglesi, nel 1431 fu giudicata colpevole di eresia e arsa sul rogo. Cohen, nella sua canzone, si concentra proprio sugli istanti che precedono la morte di Giovanna e la descrive nei termini di un suo matrimonio con il fuoco, al quale la severa eroina con la corazza che le fiamme inseguono già nella prima strofa finisce per arrendersi e per concedersi nel momento stesso in cui lascia la vita.
All'interno di una cornice costituita dalla prima e dall'ultima strofa, e segnalata dall'esecuzione della frase musicale un'ottava sotto rispetto al resto del brano, in modalità di semi-parlato a cui fa eco, in lontananza e in asincronia, la linea melodica poi portata in primo piano nelle strofe centrali, Cohen struttura le quattro strofe immediatamente successive alla prima come un contrasto196, e cioè ricalcando quella forma poetica, particolarmente diffusa nel Medioevo romanzo, che rappresenta un dialogo fra due amanti; a metà della quinta strofa, invece, a prendere la parola è di nuovo il narratore, che osserva e descrive quella strana "coincidentia oppositorum" di amore e morte in cui "l'autodafé si tramuta in amplesso, il martirio nella prima notte di nozze"197.
Come già in Via della Povertà, anche nel caso di Giovanna d'Arco De André ha innanzitutto l'esigenza di adattare il proprio testo alla musica di Cohen, la quale peraltro anche qui viene trasposta in un arrangiamento per molti aspetti simile a quello originale, con la chitarra a scandire la ritmica in tre quarti e gli intermezzi corali a conferire alla composizione il carattere di elegia funebre, il tutto ulteriormente impreziosito dai fiati – ottoni in primis – e dagli archi a sottolineare alcuni passaggi. Diversamente da quanto avviene in Via della Povertà, però, De André si attiene qui fedelmente alla sequenza delle scene stabilita nel testo di Joan of Arc; l'unica, significativa eccezione è rappresentata dalla cornice, che nella versione italiana scompare, venendo la strofa conclusiva del tutto eliminata198 e quella iniziale, invece, inglobata nella narrazione, di cui essa va a costituire l'attacco in medias res199:
Now the flames, they followed Joan of Arc
As she came riding through the dark
No moon to keep her armour bright
No man to get her through this very smoky night. [...]200
Attraverso il buio, Giovanna d'Arco
Precedeva le fiamme cavalcando
Nessuna luna per la sua corazza
Nessun uomo nella fumosa notte al suo fianco. [...]201
Mentre fra le strofe della canzone originale e quelle della traduzione è sempre facilmente ravvisabile una corrispondenza, se andiamo ad analizzare i testi più nel dettaglio notiamo subito come De André renda invece le singole immagini e le singole scene in modo relativamente libero, e come queste – fermo restando il loro debito nei confronti di quelle di Joan of Arc – rispondano, in fin dei conti, più a un'esigenza di eufonia interna al testo in italiano che non a una logica di fedeltà verso il testo di partenza. Non a caso, per esempio, mentre Cohen si attiene rigidamente, nel corso di tutto il brano, allo schema a rima baciata, De André elabora invece un tessuto sonoro molto più complesso e raffinato, giocato su continui rimandi fonici e basato sull'utilizzo – oltre che degli schemi rimici più classici – di assonanze, consonanze e rime interne:
[...]
"Then, fire, make your body cold
I'm going to give you mine to hold"
Saying this she climbed inside
To be his one, to be his only bride. [...]202
"E se tu sei il fuoco, raffreddati un poco
Le tue mani ora avranno da tenere qualcosa"
E tacendo gli si arrampicò dentro
Ad offrirgli il suo modo migliore di essere sposa. [...]203
151. Gigi Speroni (Domenica del Corriere), De André s'arrabbia con Gaber, gennaio 1974; in Claudio Sassi e Walter Pistarini (a cura di), De André talk. Le interviste e gli articoli della stampa d'epoca, Roma, Coniglio, 2008, p. 138.
152. Cfr. Luigi Viva, Non per un dio ma nemmeno per gioco. Vita di Fabrizio De André, Milano, Feltrinelli, 2002, p. 155-163. La Produttori Associati chiuderà per fallimento nel 1977, e sarà assorbita dalla Ricordi.
153. Cfr. Viva, Non per un dio ma nemmeno per gioco, ibidem.
154. A questo proposito, va senz'altro riconosciuto a Francesco De Gregori – che De André incontra al Folkstudio di Roma nella primavera del 1973, e con il quale trascorre l'intera estate di quell'anno a Portobello di Gallura, in Sardegna – il ruolo chiave di mediatore verso la canzone americana.
155. Città vecchia di Umberto Saba compare nella prima parte del suo Canzoniere, all'interno della sezione "Trieste e una donna" (cfr. Umberto Saba, Il canzoniere, Torino, Einaudi, 1961). Il Valzer campestre di Marinuzzi, invece, è contenuto nella Suite siciliana (in quattro tempi per orchestra), del 1909.
156. Valzer per un amore viene pubblicato su 45 giri nel 1964, insieme alla Canzone di Marinella; La città vecchia esce invece l'anno successivo, abbinata a Delitto di paese.
157. L'assassinat è contenuto in Les Trompettes de la renommée, Amsterdam, Philips, 1962; Mourir pour des idées e Les passantes (testo di Antoine Pol) fanno parte di Fernande, Amsterdam, Philips, 1972.
158. Desolation Row chiude l'album di Bob Dylan Highway 61 Revisited, New York, Columbia Records, 1965. Suzanne, a sua volta, è il brano introduttivo del primo disco di Leonard Cohen, Songs of Leonard Cohen, New York, Columbia Records, 1967; Joan of Arc, infine, è contenuta in Songs of Love and Hate, New York, Columbia Records, 1971.
159. Evolutasi dalla cansó provenzale, la canzone diviene la forma più frequentata dalla lirica italiana medievale. Originariamente era destinata all'esecuzione cantata, ma già con la Scuola siciliana il testo acquisisce autonomia dalla musica.
160. Per la definizione di "poesia per musica" e per la stroficità si veda nel dettaglio il primo capitolo.
161. Fabrizio De André, La ballata dell'amore cieco (o della vanità); in Canzoni, Milano, Produttori Associati, 1974.
162. Il testo di Edward occupa il tredicesimo posto all'interno della celebre raccolta di Sir Francis James Child, English and Scottish Popular Ballads, http://bit.ly/2lwg9wY.
163. Silvia Sanna, Fabrizio de André. Storie, memorie ed echi letterari, Monte Porzio Catone, Effepì, 2009, p. 56. Sanna riconduce il testo della Ballata di De André a una non meglio precisata poesia di Jean Richepin: presumibilmente, Coeur de mère. Ballade, la quale può aver fornito al cantautore uno spunto importante per la prima parte della canzone.
164. Cfr. Gianni Borgna, Le radici culturali di Fabrizio De André; in Centro Studi Fabrizio De André (a cura di), Il suono e l'inchiostro, Milano, Chiarelettere, 2009, p. 70.
165. Per il rapporto fra testo e musica in fase compositiva si veda lo schema delineato nel primo capitolo.
166. Nella sua biografia Luigi Viva riporta che, quando De André nasce a Pegli il 18 febbraio 1940, dal grammofono proviene proprio la musica del Valzer di Marinuzzi, scelta dal padre per "alleggerire l'atmosfera" del parto; cfr. Viva, Non per un dio ma nemmeno per gioco, p. 11.
167. Umberto Saba, Città vecchia; nel Canzoniere, p. 81.
168. Trieste nel caso di Saba, Genova nel caso di De André.
169. Cfr. Fabrizio De André, M'innamoravo di tutto – Il concerto 1998; ne I concerti, Milano, Nuvole Production, 2012.
170. Nancy è la traduzione di Seems So Long Ago, Nancy di Leonard Cohen, contenuta in Songs from a Room, New York, Columbia Records, 1969. Per l'analisi di Avventura a Durango si veda il secondo capitolo.
171. Fabrizio De André, In Teatro – Il concerto 1992/1993; ne I concerti.
172. Questo si intende con "translation proper" nella fondamentale classificazione di Roman Jakobson, On Linguistic Aspects of Translation; in Lawrence Venuti, The Translation Studies Reader, Londra, Routledge, 2000, pp. 115.
173. Fabrizio De André (musica di Robert Marcy), Fila la lana; in Canzoni.
174. Jacques Douai (testo e musica di Robert Marcy), File la laine; in Chansons poétiques anciennes et modernes, Parigi, BNF, 1955.
175. Stefano La Via, De André 'trovatore' e la lezione di Brassens; in Gianni Guastella e Marianna Marrucci (a cura di), Da Carlo Martello al Nome della Rosa. Musica e letteratura in un Medioevo immaginato (Semicerchio XLIV), Pisa, Pacini, 2011, p. 93.
176. Cfr. anche Nicoletta Marini, Fabrizio De André traduttore medievale?; in Giovanni Dotoli e Mario Selvaggio (a cura di), Fabrizio De André fra traduzione e creazione letteraria, Fasano, Schena, 2009, pp. 119-121.
177. Jakobson, On Linguistic Aspects of Translation, p. 115.
178. Ivi, p. 118.
179. De André, In Teatro – Il concerto 1992/1993.
180. Benedetto Croce, Estetica, Milano, Adelphi, 1990.
181. Walter Benjamin, The Task of the Translator, traduzione di Harry Zohn; in Venuti, The Translation Studies Reader, pp. 19-21.
182. Jakobson, On Linguistic Aspects of Translation, p. 115.
183. Collocazione: IV/203, cc. 16 num. U.1-18 (Marta Fabbrini e Stefano Moscadelli, Archivio d'Autore: le carte di Fabrizio De André, Roma, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, 2012, p. 194).
184. Collocazione: IV/203, num. U.1 (Fabbrini-Moscadelli, p. 194).
185. Questa procedura, a sua volta, non può non richiamare alla mente quella descritta nel primo capitolo a proposito dell'elaborazione di un testo in versi a partire da una precedente stesura in prosa stimolata da una lettura.
186. Cfr. anche Armando Capannolo, Dal rimpianto del passato alla sua reinvenzione: De André traduce ‹‹Les passantes›› di Antoine Pol; in Dotoli-Selvaggio, Fabrizio De André fra traduzione e creazione letteraria, p. 163.
187. Fa eccezione l'ultima strofa, che funge da cornice e da commento.
188. Non possiamo fare a meno di segnalare, anche in questo caso, il modello dell'Inferno dantesco.
189. Andrea Podestà ne fa un elenco parziale nel libro scritto insieme a Manuela D'Auria, Le parole che volevo ascoltare. De André traduce Cohen e Dylan, Lavagna, Zona, 2015, pp. 73-74.
190. L'unica eccezione è costituita dalla strofa dedicata a Dr. Filth (la sesta nel testo di Dylan), che nella versione di De André e De Gregori viene del tutto eliminata. L'ottava e la nona strofa di Desolation Row, invece, si ritrovano nel testo di Via della Povertà in sequenza invertita.
191. Bob Dylan, Desolation Row; in Highway 61 Revisited.
192. Fabrizio De André e Francesco De Gregori (musica di Bob Dylan), Via della Povertà; in Canzoni.
193. Anita Joy Weston, Text without notes: ‹‹Durango›› e dintorni; in Dotoli-Selvaggio, Fabrizio De André fra traduzione e creazione letteraria, p. 95.
194. Dylan, Desolation Row.
195. De André, Via della Povertà.
196. Cfr. Podestà, Le parole che volevo ascoltare, p. 57.
197. Podestà, Le parole che volevo ascoltare, p. 59.
198. Nella versione del brano uscita su 45 giri nel 1972 e arrangiata da Nicola Piovani la strofa conclusiva di commento è invece presente.
199. "In writerly terms we could say that he favours mimesis over diegesis [...] in ideological terms, that he respects alterity, the other [...]"; Weston, Text without notes, p. 92.
200. Leonard Cohen, Joan of Arc; in Songs of Love and Hate.
201. Fabrizio De André (musica di Leonard Cohen), Giovanna d'Arco; in Canzoni.
202. Cohen, Joan of Arc. I corsivi sono miei.
203. De André, Giovanna d'Arco. I corsivi sono miei.