Capitolo I. De André l'artigiano

 

 

I – 1. Shakespeare the Craftsman

 

Il titolo di questo capitolo è debitore a un ciclo di lezioni tenute nel 1968 da Muriel Clara Bradbrook nell'ambito delle Clark Lectures dell'università di Cambridge, confluite poi, l'anno successivo, in un fondamentale volume intitolato, appunto, Shakespeare the Craftsman1, "Shakespeare l'artigiano". Già all'epoca affermata critica shakespeariana, Bradbrook nel corso dei vari incontri mostrava non solo come il teatro elisabettiano di Shakespeare discendesse in buona parte dalla tradizione medievale popolare delle sacre rappresentazioni, ma anche, e soprattutto, come l'opera del drammaturgo di Stratford fosse inestricabilmente legata alle caratteristiche del teatro dell'epoca, nonché alle esigenze specifiche delle compagnie, dei luoghi e delle occasioni in cui essa concretamente si realizzava.

 

Fu, nell'universo degli studi sul teatro inglese, una vera e propria rivoluzione.2 Da allora nessun lavoro su Shakespeare potè più prescindere da un'accurata analisi del contesto teatrale di epoca elisabettiana, né da un'opportuna considerazione delle particolari forme di produzione, manipolazione e trasmissione del testo tipiche di questo mondo, in cui, come scrive giustamente Melchiori, "il testo vero" era, in fin dei conti, "la rappresentazione, lo spettacolo", e in cui l'ultima parola spettava "non all'autore, non all'uomo di lettere nel suo studio, ma all'attore, al regista e ai suoi collaboratori che realizzano quel testo in quanto creazione collettiva."3 Ciò che più importa, comunque, anche ai fini del nostro discorso, è che grazie, in buona parte, a quel fondamentale e pionieristico ciclo di lezioni di Bradbrook, negli anni a venire andarono gradualmente affermandosi un'immagine e un'idea di Shakespeare che non potevano distare di più dal mito del bardo ereditato dalla tradizione romantica: da uno Shakespeare poeta geniale e solitario, esiliato dal mondo e creatore di versi sublimi, si passò allora a uno Shakespeare artigiano, uomo di teatro e nel mestiere del teatro immerso a trecentosessanta gradi, non solo in quanto autore di testi e di copioni, ma anche come attore e impresario. Un'immagine e un'idea, queste, sicuramente meno nobili e più umili, ma non per questo meno affascinanti e ricche di una loro vitalità, soprattutto in anni in cui ogni richiamo a una dimensione popolare e collettiva trovava un terreno particolarmente fertile; per rimanere in ambito teatrale, basti pensare che l'anno di pubblicazione di Shakespeare the Craftsman, il 1969, è anche l'anno dell'ormai leggendario debutto, a Sestri Levante, di Mistero buffo di Dario Fo, dichiaratamente ispirato alla figura del giullare medievale e alla tradizione popolare della Commedia dell'Arte.

 

È lecito chiedersi, a questo punto, che cosa questo Shakespeare artigiano del teatro abbia a che fare con uno studio dedicato a Fabrizio De André. Occorrerà dunque dire, fin da ora, che il titolo di questo capitolo, coniato su quello del fondamentale libro di Muriel Bradbrook, vuole innanzitutto essere, già di per sé, una vera e propria dichiarazione di intenti: come lo Shakespeare di Bradbrook, quindi, il Fabrizio De André oggetto di analisi e discussione in questo e nei prossimi capitoli non sarà – come forse vorrebbero alcuni – il poeta della canzone, il genio creatore o l'autore ispirato di versi talmente nobili da non avere affatto bisogno della musica per stare in piedi; sarà invece – più umilmente forse, eppure, io credo, più giustamente – cantautore e insieme artigiano della canzone.

 

Il riferimento allo Shakespeare uomo di teatro riscoperto a partire dalla fine degli anni Sessanta, inoltre, risulta particolarmente utile in apertura a questo primo capitolo dedicato al metodo compositivo di De André, in quanto ci consente di sollevare, già in partenza, almeno tre aspetti di fondamentale importanza. Il primo riguarda il fatto che, come Shakespeare non inventa praticamente mai niente dal nulla, ma recupera sempre le storie alla base dei suoi drammi da materiale in qualche modo preesistente, così anche De André, tendenzialmente, compone ispirandosi a storie già lette, per lo più, altrove: è noto, per esempio, che la fiaba triste narrata nella Canzone di Marinella sia ispirata a una notizia di cronaca nera riportata in un quotidiano4, così come è noto che dietro a Smisurata preghiera, il brano che chiude il disco Anime salve, ci sia la lettura della Summa di Maqroll il gabbiere e di altri testi di Alvaro Mutis5. L'artigiano, in altre parole, non è un creatore; la sua arte consiste, piuttosto, nella capacità di modellare materia già esistente dandole una forma a volte nuova e a volte semplicemente diversa, nel realizzare le qualità che essa già contiene, in potenza, piegandola a un determinato fine.

 

Il secondo aspetto ha a che fare con la natura collaborativa e quindi collettiva del lavoro artigianale, natura che si scontra inevitabilmente con la nozione, invece, necessariamente individuale, di autorialità. Tanto Shakespeare quanto De André sono da considerarsi, anche in questo senso, dei veri e propri artigiani. Per quanto riguarda il primo, è ormai opinione diffusa, tra gli studiosi, che buona parte dei drammi tramandati sotto il nome di William Shakespeare siano in realtà, più verosimilmente, frutto della collaborazione tra il drammaturgo di Stratford e co-autori di volta in volta diversi6; del resto, come abbiamo già avuto modo di ricordare, era in ogni caso pratica abituale del teatro elisabettiano manipolare all'occorrenza il testo di partenza in base alle particolari esigenze legate alla messa in scena, la quale era, in fin dei conti, l'unico vero testo da rispettare. In quanto a De André, vedremo meglio in seguito come le diverse collaborazioni che caratterizzano, in particolare, la fase compositiva dei suoi lavori, se fino a La buona novella possono ancora essere definite occasionali, con Non al denaro non all'amore né al cielo iniziano a essere appositamente ricercate e, di volta in volta, opportunamente selezionate, fino a divenire nel corso del tempo un tratto distintivo e insostituibile del metodo di scrittura del cantautore.

 

Infine, un ultimo e fondamentale aspetto che accomuna i due artigiani William Shakespeare e Fabrizio De André, e che chiude il cerchio sulle premesse di questo primo capitolo, è la finalità performativa – e, in ultima analisi, trascendente i confini della letteratura in senso stretto, perlomeno così come questa viene oggi comunemente intesa – insita nella loro scrittura. In altre parole, se il teatro7 e la canzone condividono certamente una componente letteraria relativa al testo, d'altra parte, però, entrambi si realizzano pienamente soltanto nel momento in cui quel testo viene concretamente performato, per mezzo, a seconda dei casi, della rappresentazione sul palcoscenico o dell'esecuzione cantata. Vedremo nei prossimi paragrafi come anche questo aspetto, che potrebbe forse apparire persino scontato, sia invece determinante per la particolare forma assunta dalle canzoni già in fase di composizione.

 

 

I – 2. Artigiano, più che artista

 

Volendo tentare di dare una descrizione quanto più possibile precisa del metodo compositivo di Fabrizio De André, niente può risultare più utile, in prima istanza, delle dichiarazioni rilasciate in merito dallo stesso cantautore, apparse, già a partire dagli anni Sessanta, su giornali e riviste appartenenti per lo più alla stampa nazional-popolare: sebbene, infatti, De André fosse all'epoca tutt'altro che un personaggio pubblico, si rifiutasse di apparire in televisione e persino di dare concerti, all'interno di una concezione che avrebbe soltanto gradualmente assorbito l'enorme impatto dell'industria culturale sulla produzione artistica8 le sue canzoni, proprio in quanto canzoni, non potevano che essere considerate prodotti essenzialmente di intrattenimento, e il loro autore non poteva che apparire, a sua volta, più una personalità dello spettacolo che non un uomo di cultura.

 

La prima – e probabilmente la più famosa – di queste dichiarazioni viene rilasciata nel dicembre del 1967 all'inviata della rivista femminile Rossana, nel corso di un'intervista. Alla domanda su come nascessero le sue canzoni, De André risponde in modo molto preciso:

 

Leggendo una novella, un libro, o semplicemente un giornale, mi viene improvvisamente l'idea per un testo. Allora, per ricordarla, faccio una stesura in prosa. Poi, in base a questo schema che può essere allegro, drammatico o ironico, secondo l'impulso che l'ha ispirato, invento la musica alla chitarra; quindi, leggendo la prosa scritta prima, faccio i versi in rima.9

 

Si tratta di parole a cui si fa spesso riferimento, a volte quasi esse bastassero, nella loro schematicità, a rendere esaustivamente conto del metodo compositivo di Fabrizio De André. In realtà, se da un lato il loro contributo nel gettare luce su alcuni elementi sicuramente pregnanti è indubbio, dall'altro sarebbe sbagliato perdere di vista il contesto in cui vennero pronunciate. Il Fabrizio De André intervistato da Rossana nel 1967 non è ancora – o non è ancora del tutto – il cantautore che sarà nei decenni successivi: si trova, tutto sommato, ancora agli esordi della sua carriera, finora ha scritto le sue canzoni più che altro per svago e soprattutto le ha scritte per lo più da solo.10 Tutto questo, nel giro di pochi anni, sarebbe cambiato, e avrebbe avuto – come vedremo – alcune importanti conseguenze anche a livello di metodo di scrittura.

 

La rivelazione principale contenuta nella dichiarazione a Rossana, comunque, resta in linea di massima sostanzialmente valida per tutte le produzioni del cantautore, e riguarda l'ispirazione letteraria alla base dei testi. De André ammette placidamente, infatti, che la stesura in prosa precedente alla composizione della musica sia, di fatto, una vera e propria rielaborazione di un testo già esistente, o quantomeno l'elaborazione di uno spunto stimolato dalla lettura di quel testo. Il suo lavoro, quindi, è già in partenza non tanto quello di creare una storia dal nulla, quanto, se mai, quello di dare di quella storia una propria versione, di rimodellare il materiale originario fino a conferirgli una forma nuova e diversa da quella che aveva in precedenza.

 

Questa ispirazione letteraria assumerà nel tempo forme diverse e molteplici: basti pensare, per esempio, a due fondamentali concept dei primi anni Settanta, La buona novella e Non al denaro non all'amore né al cielo, riscrittura l'uno dei Vangeli apocrifi e l'altro dell'Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, oppure al palese riferimento de Le nuvole all'omonima commedia di Aristofane, oppure, ancora, a un disco come Anime salve, con il suo enorme debito nei confronti di Alvaro Mutis. A questo proposito, Marianna Marrucci parla di una vera e propria "poetica del saccheggio"11: nel suo saggio dedicato alla genesi e alla composizione dei testi di De André, dopo aver analizzato, nel dettaglio, il caso di Smisurata preghiera, Marrucci conclude che "quasi nulla [...] è di prima mano, ma il testo definitivo della canzone è assolutamente originale e insieme coerente con la poetica di Fabrizio De André."12 Il cantautore, in altre parole, riprende si da altri (in questo caso da Mutis) il proprio materiale di partenza, ma il prodotto finale del suo lavoro finisce per discostarsi completamente, sia nella forma sia nel significato, dal modello che lo ha ispirato. Per tornare all'esempio della Canzone di Marinella, la notizia di cronaca nera riguardante la morte violenta di una prostituta che De André aveva letto in un quotidiano si trasforma, per mano sua, in una fiaba al termine della quale la fanciulla muore, molto più delicatamente, scivolando in un fiume.

 

Vale la pena, a questo punto, di citare un'altra nota dichiarazione di De André, che ben si inserisce, qui, nel nostro discorso. L'occasione è ancora una volta un'intervista, in questo caso rilasciata alla rivista Oggi nel gennaio del 1972, qualche mese dopo la pubblicazione di Non al denaro non all'amore né al cielo. Nel corso della conversazione si discute, tra l'altro, del rapporto tra le poesie di Masters e i testi del concept, e il cantautore afferma:

 

Comunque il mio è stato solo un lavoro di mosaicista. Masters aveva già detto tutto: io non ho fatto altro che ricomporre questi versi in modo tale che potessero essere detti in canzoni... un lavoro a tavolino, e un lavoro più da artigiano che da artista.13

Certo, anche in questo caso bisogna tenere conto del fatto che De André, in quella particolare occasione, si riferisse nello specifico al lavoro da lui compiuto insieme a Giuseppe Bentivoglio sui testi dell'Antologia di Spoon River; eppure, come il già citato saggio di Marianna Marrucci ben dimostra, non è difficile adattare questa definizione di "mosaicista", fornitaci dal cantautore medesimo, anche al resto del suo lavoro, soprattutto per quanto riguarda la fase compositiva relativa ai testi.

 

È sempre De André, inoltre, ad auto-definirsi un artigiano, piuttosto che un artista, mostrando così di distinguere chiaramente due diverse modalità di scrittura: una, artistica, caratterizzata dalla creazione diretta e spontanea, e l'altra, artigianale, consistente invece in un lavoro paziente e accurato, di recupero, assemblaggio, rielaborazione e poi di meticolosa limatura e rifinitura. A confermare che l'operazione compiuta dal cantautore sia normalmente di questo secondo tipo ci sono, tra le altre cose, le testimonianze dei numerosi collaboratori che lo hanno affiancato nel corso degli anni. Il produttore Roberto Dané, per esempio, racconta a Riccardo Bertoncelli14 delle infinite notti passate insieme a De André nella sua casa di corso Italia, a Genova, a comporre i testi de La buona novella, e della tecnica minuziosa del cantautore nel curare ogni singolo verso, ogni singola quartina, fino a raggiungere l'effetto desiderato; un'operazione, insomma, tutt'altro che automatica e immediata, ma al contrario frutto di un lavoro faticoso e persino massacrante – per quanto creativo e quindi, alla fine, gratificante – e di una perizia data dall'esercizio assiduo e paziente del proprio strumento espressivo, tipica dell'artigiano. La versione di Dané è confermata, per così dire, da Ivano Fossati, co-autore di Anime salve vent'anni dopo La buona novella, che narra, sempre a Bertoncelli15, di un De André chiuso in casa a scrivere per giorni e giorni, ligio al duro lavoro piuttosto che alla fugace ispirazione del momento.

 

Assodato questo primo punto, l'intervista del 1967 a Rossana ci presenta anche un secondo, e altrettanto fondamentale, nodo da sciogliere, che riguarda il rapporto tra testo e musica in fase compositiva. Il cantautore ci fornisce infatti, nel giro di poche parole, due informazioni estremamente importanti, che, se analizzate a dovere, contribuiscono a fare non poca chiarezza: ci dice, innanzitutto, che l'ispirazione primigenia per comporre una canzone riguarda nel suo caso sempre, come abbiamo già avuto modo di vedere, la parte relativa al testo, tant'è vero che la prima fase di scrittura consiste in una rielaborazione in prosa di uno spunto ricavato da una lettura; ci dice anche, però, che la composizione della musica alla chitarra precede, ed è la base, dei versi in rima, e cioè del testo della canzone nella sua versione definitiva.

 

Per "composizione della musica alla chitarra" si intende con ogni probabilità, almeno in questa prima fase, la semplice creazione di una linea ritmico-melodica con il relativo e fondamentale giro di accordi; niente di complesso, insomma, e del resto ben sappiamo di come la composizione di una vera e propria partitura non solo fosse preclusa a De André – la cui preparazione musicale era tutto sommato modesta16– ma costituisse anche, per lui, interessato già da allora più alla cura dei testi che ad altro, motivo, tutto sommato, di scarso interesse. Quello che conta, a ogni modo, è che la dichiarazione a Rossana ci mostra palesemente come i versi di Fabrizio De André, pur costituendo, in ultima analisi, la ragion d'essere delle intere sue canzoni ed essendo quindi a tutti gli effetti, secondo la fondamentale definizione di Stefano La Via, un esempio di "poesia per musica"17, non siano affatto dalla musica indipendenti, ma, al contrario, vengano creati proprio a partire dalla struttura musicale – per quanto minima e minimale essa sia. Sono versi che, in altre parole, nascono per essere cantati, per essere accompagnati alla e dalla musica, la quale, a sua volta, ben lungi dall'essere un qualcosa di accessorio, può essere definita un vero e proprio elemento strutturale della composizione, che va a porsi tra la fondamentale ispirazione letteraria e il modo in cui questa ispirazione concretamente si realizza:

 

immagini1

 

 

Questo schema, derivato dalla descrizione che De André fa del proprio metodo di scrittura alla fine degli anni Sessanta, rimane sostanzialmente valido anche per il lavoro dei decenni successivi. Il caso più estremo, da questo punto di vista, è probabilmente quello di Creuza de mä, per il quale Mauro Pagani, dopo anni di ascolti e ricerche nell'ambito della musica mediterranea, scrive innanzitutto le tracce musicali, cantandole nei provini in "arabo maccheronico"18 per dare un'idea delle sonorità desiderate anche a livello linguistico, e per il quale De André compone i testi in genovese soltanto in un momento successivo. Anche, comunque, per un disco che in un certo senso si situa agli antipodi di Creuza de mä per la tipologia di lavoro svolto, Non al denaro non all'amore né al cielo, sappiamo dal co-autore Nicola Piovani che il cantautore era solito abbozzare giri di accordi ancora prima di mettersi concretamente al lavoro sulle poesie di Masters – e, da queste, sui testi delle canzoni – insieme a Giuseppe Bentivoglio.19

 

Dire che la musica è un elemento strutturale delle composizioni di De André significa anche e soprattutto, per quanto ci riguarda, riconoscere che diverse caratteristiche intrinseche ai testi delle sue canzoni dipendono strettamente dal loro essere stati appositamente redatti per la musica e per l'esecuzione cantata. Tra queste caratteristiche, la principale e la più evidente è senza dubbio la stroficità, a proposito della quale vale la pena di citare, qui, alcune osservazioni di Stefano La Via:

 

Mi riferisco, in sostanza, a quel principio compositivo di fondo [...] alla base dell'approccio creativo deandreiano: versi d'alta qualità letteraria – non importa se originali o tradotti – vengono intonati su musiche [...] di carattere invariabilmente strofico e formulaico. [...] passando da una strofa all'altra, son proprio i versi, nel loro continuo mutare, a chiarire via via il significato di una musica apparentemente immutabile, fino a metterne a fuoco il senso più riposto. [...] Si tratta, in altre parole, di un'espressività dilatata e cumulativa [...]20

 

La stroficità è, fra tutti, l'elemento che più testimonia l'unione profonda tra testo e musica nelle canzoni di De André. Secondo questo principio, magistralmente descritto da La Via nel suo saggio, è vero infatti che è compito delle parole, attraverso il loro continuo variare da una strofa all'altra, rendere via via chiaro il senso profondo della canzone, ma è anche vero che la struttura del testo è a sua volta determinata da quella, fissa e invariata, della musica, la quale, del resto, quel senso profondo già lo contiene. Il testo, quindi, non è che di fatto una continua variazione sul tema musicale, e di quel tema musicale è fondamentalmente a servizio.

 

Un'altra tendenza formale riscontrabile in De André, derivata anch'essa da questa presenza strutturale della musica nella composizione, è una certa libertà a livello metrico e rimico: sebbene infatti sia il cantautore stesso a specificare di comporre versi in rima, e sebbene anche a livello metrico sia normalmente ravvisabile, nelle sue canzoni, un dato pattern, non accade di rado che, all'interno di uno schema tutto sommato regolare, De André si conceda significative variazioni. È sempre La Via21 a notare, per esempio, come Nell'acqua della chiara fontana, rispetto al suo Brassens di riferimento caratterizzato da un totale "rigore trobadorico", sia dotata, invece, di una certa "flessibilità giullaresca": al dominante novenario, De André alterna piuttosto di frequente (per 1/4 dei totali ventiquattro versi) il decasillabo, mentre l'apparente regolarità iniziale dello schema a rima alternata è turbata già nella terza strofa per poi essere recuperata nella quinta, e messa nuovamente in crisi nella sesta.

 

Si tratta, anche in questo caso, di un fenomeno per il quale la presenza della musica è determinante: essa, infatti, garantisce alla canzone una regolarità – principalmente ritmica, ma anche armonica – di fondo, ed è proprio contando su questa regolarità, su questa ricorrenza cadenzata di suoni e accenti, che il cantautore è libero di operare, a livello di testo, alcune piccole eccezioni, le quali in fin dei conti rendono l'andamento della canzone nel suo complesso più vivace e movimentato. Senza la musica di accompagnamento, irregolarità metriche e rimiche di questo tipo difficilmente potrebbero avere luogo.

 

Su stroficità e caratteristiche come quelle descritte qui sopra torneremo più avanti. Per il momento, alla luce di quanto è stato detto finora, basti notare quanto poco senso abbia sostenere – come molti22 hanno fatto e continuano a fare – che i testi di De André siano vere e proprie poesie, e che per stare in piedi non abbiano affatto bisogno della musica: chi fa tali affermazioni mostra infatti di non comprendere appieno la loro natura e, limitandosi a considerarne il pur indubbio valore letterario, finisce per perdere inevitabilmente di vista il valore aggiunto conferito al testo proprio dalla musica. Fabrizio De André non è un poeta, è un cantautore. Un cantautore, certo, particolarmente dedito e attento alla cura delle parole, ma che alle parole sceglie sempre di accompagnare le note, servendosi di esse "come un pittore si serve della tela".23 Anche in questo, insomma, in tutto e per tutto un artigiano.

 

 

I – 3. La bottega

 

Nessuna descrizione del metodo compositivo di Fabrizio De André sarebbe completa, se non prendesse in considerazione l'aspetto che più contribuisce a caratterizzarlo nel panorama della canzone d'autore italiana e internazionale: mi riferisco alle collaborazioni che – sistematicamente a partire dai primi anni Settanta, e occasionalmente anche prima – contraddistinguono la fase di scrittura delle sue canzoni e dei suoi album. Se infatti la produzione di un disco – nelle diverse fasi di arrangiamento, registrazione e mixaggio – è un processo che evidentemente presuppone il lavoro di un team – composto da arrangiatori, musicisti, tecnici del suono e necessariamente da un produttore con una visione d'insieme a supervisionare il tutto – , la scrittura dei brani che compariranno poi sul disco in questione non richiederebbe, teoricamente, che un semplice autore. A maggior ragione quando si tratta del disco di un cantautore24, che, a partire dalla fine degli anni Cinquanta, è per definizione colui che interpreta le canzoni di cui ha scritto – autonomamente, appunto – sia testo che musica. Sia ben chiaro: non che per i cantautori sia esclusa la possibilità di collaborare con altri, o tra di loro. Di collaborazioni, anzi, è disseminata la loro storia: limitandoci all'Italia, basti pensare a quella di Francesco Guccini con i Nomadi durante gli anni Sessanta, o a quella di Francesco De Gregori con Lucio Dalla per Banana Republic alla fine degli anni Settanta, o ancora a quella, celeberrima, di Lucio Battisti con i due parolieri Mogol e Pasquale Panella.

 

Eppure, se prendiamo in considerazione questi e altri casi, notiamo subito come le collaborazioni con e tra cantautori, per quanto numerose e diversificate, non riguardino quasi mai la fase compositiva delle canzoni: sappiamo bene, per esempio, che brani come Noi non ci saremo e Dio è morto, pur divenuti nel tempo veri e propri cavalli di battaglia dei Nomadi, sono in realtà opera, a livello autoriale, del solo Guccini, così come sappiamo che il live di Banana Republic consisteva di fatto, per la maggior parte, nell'esecuzione congiunta di brani estratti dalle rispettive discografie soliste di Dalla e De Gregori; per quanto riguarda invece Battisti, la sua scelta di affidarsi fin dal principio a parolieri professionisti per la composizione dei testi lo colloca non a caso decisamente ai margini della definizione di cantautore.

 

A un primo sguardo, il caso di De André potrebbe apparire analogo e speculare a quello di Lucio Battisti. Leonardo Colombati scrive addirittura, a questo proposito, di un "canone della musica popolare italiana" che avrebbe al centro proprio queste due figure25:

 

De André e Battisti sono l'alfa e l'omega, lo zenit e il nadir della canzone italiana; rispettivamente il poeta e il musicista, l'intellettuale e il bon sauvage [...] Quasi mai De André ha composto la musica delle proprie canzoni, la cui forza sono i suoi celebratissimi testi; Battisti, al contrario, è il geloso autore di ogni singola sua nota, lasciando ad altri il compito di rivestirle di parole [...]

 

In realtà, non possiamo fare a meno di notare come questa così apparentemente perfetta specularità fra i due sia più ricercata che reale. Certo, l'interesse di De André ricade fin dal principio più sul testo che sulla musica, ma d'altra parte le dinamiche compositive delle sue canzoni sono spesso molto più complesse di come Colombati, un po' semplicisticamente, le sottintende. Persino per un disco come Anime salve, le cui musiche furono quasi interamente scritte da Ivano Fossati, sappiamo per esempio che non fu mai prestabilita una vera e propria divisione di compiti, e il fatto che De André si dedicasse principalmente ai testi e Fossati principalmente alla musica non impediva, a detta di quest'ultimo, la possibilità, per ciascuno, di intervenire a influenzare o modificare le scelte dell'altro.26

 

Nemmeno nel caso di Creuza de mä, per il quale l'intervento compositivo di De André sui testi si colloca in buona parte a posteriori rispetto a quello di Mauro Pagani sulle musiche, il cantautore rinuncia del tutto a curare anch'egli la dimensione musicale del disco, seguendo con attenzione quasi maniacale ogni fase della sua produzione, dalle registrazioni fino al mixaggio.27 Soprattutto, in De André la tendenza a delegare in modo sempre più massiccio ai collaboratori il lavoro relativo alla composizione della musica inizia a farsi chiaramente strada soltanto a distanza di anni dal suo esordio, e secondo dinamiche e motivazioni del tutto diverse da quelle che portano Battisti a delegare a Mogol e a Panella la composizione dei testi. Ma andiamo con ordine.

L'esordio discografico di Fabrizio De André risale al 1961, con i due 45 giri Nuvole barocche/E fu la notte e La ballata del Michè/La ballata dell'eroe. Per buona parte del decennio la produzione del cantautore si concretizza proprio nella pubblicazione di questi piccoli dischi dal doppio lato; il primo 33 giri, Volume 1, arriva soltanto nel 1967. Durante questi anni – come dicevamo – De André scrive per lo più da solo, sebbene non manchino, già da allora, le prime sporadiche collaborazioni: per il testo della Ballata del Michè, come è noto, il cantautore si avvale dell'aiuto della paroliera Clelia Petracchi, mentre è l'amico Paolo Villaggio a contribuire ai versi de Il fannullone e della celebre Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers, uscite entrambe l'anno successivo.

 

Per quanto riguarda la musica, fondamentali sono in questa fase gli insegnamenti e le indicazioni del chitarrista Vittorio Centanaro, che incoraggia De André a riscoprire la tradizione dei trovatori provenzali e il loro particolare modo di servirsi dell'accompagnamento musicale28, e soprattutto il lavoro dell'arrangiatore Gian Piero Reverberi, assegnato al cantautore quasi "d'ufficio" dalla casa discografica e suo collaboratore fino a La buona novella e poi di nuovo per Canzoni – e in parte anche per Rimini – a metà degli anni Settanta.

 

Al di là delle più o meno occasionali collaborazioni, comunque, quello che emerge con forza dall'analisi di questo primo periodo è sicuramente la tendenza, da parte di De André, ad appropriarsi spesso e volentieri di materiale – sia letterario che musicale – in qualche modo già esistente e opera di altri autori, per rielaborarlo poi con assoluta libertà all'interno delle proprie composizioni: se, per esempio, è un'omonima poesia di François Villon a ispirare Il testamento, il tema musicale della Canzone dell'amore perduto è invece sviluppato a partire dall'Adagio del Concerto in re maggiore per tromba, archi e basso continuo del compositore Georg Philipp Telemann, mentre Fila la lana, a dispetto dall'indicazione che la vuole tratta "da una canzone popolare francese del XV secolo", consiste di fatto nella traduzione e nel relativo adattamento musicale di una canzone pressoché contemporanea, scritta da Robert Marcy e incisa da Jacques Douai.29 De André, peraltro, non si fa troppi scrupoli a depositare a suo nome alla Siae composizioni che in realtà, da un punto di vista strettamente autoriale, a volte sue interamente non sono30, mettendo così in evidenza l'inevitabile conflitto tra una tradizione artistica tutta costruita intorno alla figura individuale dell'autore – qual è anche la tradizione cantautorale – e una concezione che invece pone l'opera al centro di tutto e ne fa patrimonio collettivo – qual è, in buona misura, la sua.

 

In questi anni Fabrizio De André non è ancora un cantautore di professione: alla sua principale occupazione di studente universitario si aggiunge, dopo la nascita del figlio Cristiano e il matrimonio con Puny Rignon nel 1962, il lavoro di direttore negli istituti scolastici di proprietà del padre; scrivere canzoni non è per lui che un'attività secondaria, all'epoca, una sorta di passatempo che gli permette di arrotondare i guadagni per mantenere la famiglia.31 Le cose iniziano a cambiare dopo qualche tempo, e in particolare quando Mina, nel 1968, pubblica la sua versione della Canzone di Marinella, procurando all'autore del brano non solo un notevole picco di notorietà, ma anche un significativo aumento delle entrate legate ai diritti Siae. È a questo punto che De André capisce di poter fare della sua attività di cantautore un vero e proprio mestiere, e, abbandonati il lavoro di direttore scolastico e la carriera universitaria prima della laurea, si getta anima e corpo nella sua nuova occupazione; il periodo tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio degli anni Settanta, non a caso, non solo è per il cantautore il più prolifico in assoluto, ma segna anche l'affermarsi – o piuttosto il confermarsi, e l'accentuarsi – di alcune modalità di lavoro che contribuiranno, col tempo, a farne una figura assolutamente unica.

 

Innanzitutto, questo periodo segna il passaggio deciso, per De André, dal formato del 45 giri al formato del 33 giri, che si rivelerà ben presto quello a lui più idoneo e più conforme: tra il 1967 e il 1973 il cantautore pubblica ben sei long playing contenenti materiale in larghissima parte inedito, mentre i piccoli extended playing vengono ormai unicamente deputati al ruolo complementare di promozione dei singoli, ovvero di quei brani da cui la casa discografica si aspetta un particolare successo a livello commerciale. Nel momento in cui, quindi, De André smette di scrivere canzoni per passatempo e inizia a farlo per mestiere, alla pubblicazione di brani isolati si sostituiscono progetti molto più ambiziosi, che trascendono le singole canzoni e ruotano invece attorno a un elemento che accomuna tutte le composizioni racchiuse nel disco.

 

Non a caso, se si eccettuano l'album d'esordio Volume 1 e quello dell'anno successivo contenente brani in buona parte già editi, Volume 3, gli altri LP di questo periodo non sono semplicemente raccolte di canzoni, ma sono tutti album a tema – o concept album. Tutti morimmo a stento non è solo presentato ed eseguito, con tanto di orchestra sinfonica, come una "Cantata in si minore per solo, coro e orchestra", ma è anche un disco dedicato al tema della morte; La buona novella, oltre a rivelare una certa impostazione teatrale di fondo – probabilmente legata anche alle esperienze da regista del produttore Roberto Dané32 – consiste in una riscrittura della storia di Maria e Gesù di Nazaret ispirata ai Vangeli apocrifi; Non al denaro non all'amore né al cielo è, a sua volta, la riscrittura di un'opera poetica, l'Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters; Storia di un impiegato, infine, è un disco che, narrando le vicessitudini di un colletto bianco convertito tardi al Maggio francese, fa il punto sulle derive individualistiche e violente dell'ideologia collettivista sessantottina.

 

La svolta più evidente relativa a questi anni, comunque, ha a che fare con il confermarsi e lo stabilizzarsi della dimensione collaborativa in fase di scrittura. Mentre infatti, come abbiamo visto, per la maggior parte degli anni Sessanta De André aveva scritto canzoni per lo più da solo – pur con l'eccezione di alcune occasionali collaborazioni, e pur tenendo sempre presente la sua tendenza a lavorare su materiale già esistente – i primi due concept Tutti morimmo a stento e La buona novella portano con sé alcune importanti novità. Per quanto riguarda il primo, al di là del lavoro congiunto con il poeta e amico Riccardo Mannerini per il testo del Cantico dei drogati e con Giuseppe Bentivoglio per quello della Ballata degli impiccati, il carattere baroccheggiante di fondo rivela sicuramente un grande debito anche nei confronti di Gian Piero Reverberi, musicista di formazione classica che, riconosciuto a livello di diritti unicamente in veste di arrangiatore, svolse in realtà un ruolo molto più significativo nel coordinamento dell'intero progetto, soprattutto sul piano musicale.33 Qualcosa di simile si può dire anche per La buona novella, dove De André – pur riconosciuto di fatto come unico autore34 – viene affiancato non solo da Reverberi per gli arrangiamenti e per la musica in generale, ma anche dal produttore Roberto Dané, che oltre ad assisterlo nella composizione dei testi contribuisce a curare l'impronta e l'impostazione complessiva del disco.

 

Il passaggio successivo – e chiave – è costituito dagli altri due concept cui accennavamo sopra, Non al denaro non all'amore né al cielo e Storia di un impiegato. Per lavorare a entrambi, infatti, De André trascorre per la prima volta mesi interi lontano da Genova, a Roma, immerso nella scrittura dei brani e nelle successive registrazioni, ma soprattutto coinvolge, fin dall'inizio del progetto, una piccola squadra di collaboratori, composta principalmente da Giuseppe Bentivoglio, Nicola Piovani e Roberto Dané. Tutti i testi contenuti in questi due dischi presentano la doppia firma De André-Bentivoglio, tutte le musiche quella De André-Piovani.35 Si tratta di una svolta fondamentale, non solo perché porta a maturazione, per così dire, tendenze e attitudini che avevano caratterizzato il lavoro del cantautore fin dall'inizio della sua carriera, ma anche perché verrà ulteriormente confermata nelle produzioni successive, fino a divenire un vero e proprio marchio di fabbrica. Bisogna dire, inoltre, che la dimensione collaborativa alla base di questi due dischi coinvolge anche una fase persino antecedente a quella della scrittura vera e propria: una fase di discussioni e di confronti, particolarmente favorita dal contesto politico e sociale di quegli anni e dal fatto che i diversi membri della squadra, pur trovandosi su posizioni ideologiche quasi mai del tutto allineate, condividono pur sempre idee e convinzioni di fondo.36

 

Dopo la breve e disordinata collaborazione con Francesco De Gregori per Volume 8 e in parte anche per Canzoni a metà degli anni Settanta37, un lavoro, di nuovo, più propriamente collettivo contraddistingue i due concept scritti da De André insieme a un giovanissimo Massimo Bubola, Rimini e L'indiano, pubblicati rispettivamente nel 1978 e nel 1981.38 Caratterizzati entrambi da uno spiccato e rinnovato interesse per la musica e la cultura popolare e parallelamente da una fascinazione per il contemporaneo rock di matrice anglosassone, scritti entrambi in Sardegna, alla tenuta dell'Agnata, in tempi molto lunghi e rilassati, questi due dischi sono il frutto di un vero e proprio lavoro congiunto dei due autori, che riguarda tanto le discussioni sui temi portanti – rispettivamente la piccola borghesia italiana e i parallelismi tra gli Indiani d'America e il popolo sardo – quanto la ricerca delle forme poetiche e musicali.

 

Una svolta ulteriore, e in un certo senso definitiva, è invece rappresentata da Creuza de mä del 1984, che – come abbiamo già accennato e come avremo modo di vedere in seguito – si innesta fin dal principio sugli ascolti e sulle ricerche che Mauro Pagani aveva condotto negli anni precedenti nell'ambito della musica mediterranea, e per il quale l'unico intervento di De André – perlomeno in fase compositiva – riguarda i testi. Creuza de mä è sicuramente un caso particolare ed estremo, eppure possiamo dire che esso inauguri una tendenza ampiamente ripresa anche nei due dischi successivi: la tendenza, cioè, da parte del cantautore, a occuparsi sempre più esclusivamente delle parole e ad affidare in larga parte la composizione della musica ad altri, senza comunque mai perderla completamente di vista. Abbiamo detto come nel caso di Anime salve, del 1996, le musiche siano state in buona parte scritte dal solo Ivano Fossati; dinamiche simili si hanno anche nel disco del 1990, Le nuvole, cofirmato da De André e Pagani ma caratterizzato, anch'esso, da un'implicita e sostanziale suddivisione di compiti.39

 

Alla luce di questo excursus sulle numerose collaborazioni di cui è disseminata la carriera del cantautore, appare evidente come il suo orientarsi in modo sempre più deciso verso una scrittura collaborativa abbia, tutto sommato, relativamente poco a che fare con una consapevolezza – speculare a quella che effettivamente porta Battisti a delegare quasi fin da subito la composizione dei testi – delle proprie modeste competenze a livello musicale. Come abbiamo visto, infatti, De André comincia a ricercare i propri collaboratori in modo sistematico soltanto nel momento in cui diviene cantautore di professione, e i suoi progetti iniziano a farsi più ambiziosi e a richiedere quindi un lavoro più complesso nelle diverse parti. Nel suo caso si tratta quindi, in altre parole, non tanto di una vera e propria necessità – reale o presunta – , quanto piuttosto di una scelta, che peraltro ben si sposa con la tendenza, presente in lui fin dall'inizio, a lavorare spesso e volentieri su materiale già esistente e a curarsi ben poco, in molti casi, della dimensione strettamente autoriale. È lo stesso cantautore a confermare un'interpretazione di questo tipo, nel corso della lunga intervista rilasciata a Mucchio Selvaggio nel settembre del 1992:

 

[...] è un po' quello che succede ai disegni dei pittori quando diventano quadri e si arricchiscono di colori e di tutto il resto. Allo stesso modo la canzone scritta con la chitarra si avvicina molto di più all'ideale che hai in mente di quanto non possa il prodotto finito.40

Del resto, neppure la brillante proposta di Franco Fabbri, che nel suo saggio De André il progressivo cerca di inquadrare la figura del cantautore nel frame del progressive rock e interpreta le collaborazioni e altri aspetti del suo metodo compositivo – "incomprensibili se non addirittura imbarazzanti"41 nel contesto della canzone d'autore – come contaminazioni con il suddetto ambiente musicale, contribuisce a mio avviso a chiarire del tutto questa scelta. Se infatti nel caso delle band progressive la scrittura collettiva è connaturata al contesto creativo di gruppo – e, peraltro, ampiamente sperimentale – , nel caso di un cantautore – erede contemporaneo, per certi aspetti, di quello Shakespeare poeta geniale e solitario celebrato dal Romanticismo – essa non può che presupporre, alla base, una peculiare e atipica concezione dell'arte, di matrice, ancora una volta, decisamente artigianale:

 

Ma infatti io ho sicuramente un concetto dell'arte pre-romantico, tanto è vero che io sono uno che collabora volentieri, faccio spesso il gregario. È un continuo confronto. Ricordo quando c'erano questi grandi pittori di paesaggio, che partivano da Anversa e venivano a vivere e a morire a Roma, come Brill per esempio. Lui era bravo a disegnare le quinte e gli sfondi, ma si faceva dipingere i personaggi, gli asini o i pastori che camminavano per la strada, dalla scuola dei Carracci di Bologna.42

 

Il riferimento è chiaro: anche se mai direttamente nominata, l'idea su cui si basa l'intera metafora pittorica sviluppata nel corso dell'intervista è quella della bottega, ovvero di quel luogo in cui durante il Rinascimento – ma non solo – gli aspiranti artisti e gli aspiranti artigiani43 si recavano per imparare il mestiere, dove il lavoro era svolto collettivamente da apprendisti e maestro e dove quest'ultimo – spesso, poi, firmatario dell'opera – aveva più che altro il ruolo di coordinare il progetto e di convogliare i diversi apporti in modo da dar vita a un insieme unitario e allo stesso tempo originale.

 

Per quanto riguarda le numerose collaborazioni cui abbiamo fatto cenno in questo paragrafo, di dinamiche di bottega si può sicuramente parlare44, non tanto forse in termini di distinzione tra apprendisti e maestro, quanto piuttosto considerando la straordinaria capacità di De André di assorbire i contributi dei propri collaboratori e di inserirli complessivamente nell'opera conferendo loro, al tempo stesso, la sua personale e inconfondibile impronta.45 Letta così, questa tendenza a collaborare non può che apparire coerente con le altre caratteristiche alla base del metodo compositivo del cantautore già analizzate in precedenza, e non può che confermare la nostra tesi del De André artigiano della canzone, che concepisce la scrittura non tanto come creazione individuale del singolo, ma piuttosto come recupero, rielaborazione e riappropriazione di qualcosa che già c'è, e che trascende, in quanto tale, la dimensione dell'autore per divenire patrimonio collettivo.

 

 

I – 4. Le carte

 

Ulteriore conferma delle caratteristiche del metodo compositivo di Fabrizio De André delineate nel corso di questo capitolo ci viene dalla vasta documentazione autografa conservata presso l'archivio della Biblioteca Umanistica dell'Università di Siena, e in particolare da quella relativa ai materiali di studio e di lavoro del cantautore.46 All'interno di questa sezione, infatti, sono raccolti diversi quaderni e fogli sparsi utilizzati in fase di scrittura delle canzoni, che riportano idee, appunti preliminari, testi o parti di testi con le relative annotazioni, traduzioni, considerazioni sulla strumentazione dei brani e sugli elementi eventualmente da revisionare. Prima di addentrarci nell'analisi di alcuni di questi documenti, sarà bene considerare che si tratta, in linea di massima, di carte appartenute al solo De André, che per lo più non rendono conto, quindi, della dimensione collaborativa alla base della maggior parte dei suoi lavori; allo stesso modo, dal momento che – come abbiamo visto – il cantautore non componeva tramite partitura, le informazioni che possiamo trarre sono per lo più relative ai testi, sebbene da queste sia poi possibile ricavare anche indicazioni sul particolare rapporto fra testo e musica che caratterizza le varie composizioni.

Il primo documento su cui ci concentreremo sarà un quaderno risalente alla fine degli anni Sessanta, contenente i testi di alcune canzoni di Volume 1 e appunti e altro materiale preparatorio relativo a L'infanzia di Maria, presumibilmente il primo brano de La buona novella a essere stato composto.47 Le canzoni di Volume 1 in questione sono Si chiamava Gesù, Preghiera (per un amico) in dicembre (questo il titolo originario di Preghiera in gennaio qui riportato), Bocca di rosa, Via del Campo, Marcia nuziale e La canzone di Barbara.

 

Alcuni dei testi, ordinatamente trascritti a penna blu in una bella calligrafia corsiva, compaiono qui in una redazione che è già, di fatto, quella definitiva dell'album; nel caso di altri, invece, abbiamo a disposizione una versione che, per quanto redatta in modo altrettanto ordinato, è ancora per lo più in via di definizione, come ci segnalano, di volta in volta, le abbondanti cancellature e correzioni a penna, le parti scritte a matita e soprattutto, qua e là, le strofe ancora mancanti. Al di là dei differenti stadi di composizione dei vari brani, comunque, alcune significative caratteristiche comuni sono facilmente ravvisabili, e vogliamo esemplificarle, qui, per mezzo della trascrizione della quarta strofa di Preghiera (per un amico) in dicembre, così come risulta redatta nel quaderno:

 

Signori benpensanti spero non vi dispiaccia
se in cielo in mezzo ai santi Iddio fra le sue braccia
Soffocherà il singhiozzo di quelle labbra smorte
che all'odio e all'ignoranza preferirono la morte48

A saltare subito all'occhio – qui come negli altri testi – è l'utilizzo molto libero della punteggiatura e la scarsa osservanza delle norme linguistiche relative all'uso della maiuscola a inizio di frase. Più che rispondere a una logica grammaticale vera e propria, infatti, i versi di questa e delle altre canzoni risultano invece aderenti a una già sostanzialmente presente struttura ritmico-melodica di fondo, la quale – fermo restando il senso compiuto del periodo complessivo – è in fin dei conti ciò che detta le caratteristiche metriche e linguistiche delle varie strofe. Non solo, quindi, De André omette diverse virgole (per esempio dopo l'apostrofe "Signori benpensanti") e il punto in chiusura di periodo, ma utilizza anche la lettera maiuscola – grammaticalmente del tutto immotivata – in apertura al terzo verso, soltanto per marcare dal punto di vista grafico la struttura metrica di quartina composta da due distici di alessandrini, dettata dalla sottostante frase musicale. Tutti i testi di Volume 1 qui presenti sono trascritti secondo questa modalità, e sono composti da una sequenza – di lunghezza variabile – di quartine a loro volta suddivise all'interno in coppie di versi, ricalcanti una struttura ritmico-melodica – ma necessariamente anche armonica – mai eccessivamente complessa, che si risolve nel giro di poche battute e viene poi ripetuta pari pari – fermo restando le possibili variazioni – per tutto il resto della canzone, secondo il fondamentale principio della stroficità.

 

A testimoniare il fatto che i versi nascano a partire da una struttura musicale già sostanzialmente definita o comunque abbozzata c'è anche, per ognuno dei testi riportati nel quaderno, l'indicazione a matita – di solito in alto a destra – della tonalità di riferimento. Questo vale, quindi, non solo per un caso come quello della futura Preghiera in gennaio, che compare qui in una redazione già praticamente definitiva abbinata alla tonalità di La minore, ma anche per testi lungi dall'essere completi, come quello, per esempio, della Canzone di Barbara, di cui nel quaderno sono riportate soltanto le prime due strofe ma la cui tonalità – anche in questo caso di La minore – risulta già indicata a fianco del titolo.

Il fatto che poi, in Volume 1, le due canzoni vengano di fatto eseguite entrambe in Do minore poco importa: se è vero, infatti, che per De André la musica costituisce il punto di partenza per la redazione del testo in versi, è anche vero, però, che una volta che quel testo è stato redatto essa non diviene altro che uno strumento al suo servizio, in quanto tale passibile di adattamenti; uno strumento per declamare quelle parole che sono nate si sul respiro della musica, ma che rappresentano in se stesse, in fin dei conti, la vera ragion d'essere dell'intera canzone. Del resto, tanto questo scarso curarsi della tonalità in sé quanto il particolare modo di redigere il testo che abbiamo osservato nel dettaglio relativamente a Preghiera (per un amico) in dicembre ci rimandano a quello che è il contesto privilegiato e, in fondo, naturale di una canzone, ovvero quello performativo; all'esecuzione che è, di fatto, l'unica vera realizzazione congiunta delle tre componenti letteraria, musicale e interpretativa alla base di questa forma d'arte, e della sua dimensione squisitamente orale.

 

Per quanto riguarda, invece, il rapporto tra la prima stesura in prosa e la successiva versificazione di cui abbiamo discusso nel secondo paragrafo di questo capitolo, un caso particolarmente eloquente tra i documenti presenti nel quaderno è senza dubbio il testo di Bocca di rosa.49 Se esso, infatti, condivide con gli altri le caratteristiche relative alla suddivisione in quartine composte a loro volta da due coppie di distici, all'utilizzo peculiare di punteggiatura e maiuscole e all'abbozzo della tonalità in matita – Sol minore, in questo caso – la prima, in particolare, delle quattro pagine del documento ci fornisce un'ulteriore, significativa indicazione. Mentre, a partire dalla settima strofa, il testo di Bocca di rosa risulta trascritto in una versione che è tutto sommato molto simile a quella definitiva di Volume 1, nella prima parte esso si presenta invece molto più fluido e instabile, ancora evidentemente in fase di lavorazione: oltre al fatto che una delle strofe qui presenti viene poi del tutto eliminata, ciò che più conta è che, dopo la celebre quartina d'apertura dedicata alla breve ma efficace presentazione della protagonista, il testo del documento presenta un buco corrispondente alla lunghezza di quattro strofe da quattro versi ciascuna, chiaramente previste ma non ancora composte né inserite.

 

A un primo sguardo, potrebbe sembrare strano che una canzone come Bocca di rosa, costituita – come la maggior parte di quelle di Volume 1 – da una sequenza di quartine del tutto simili tra loro dal punto di vista metrico e rimico, risulti incompiuta, in questa fase, proprio nella prima parte; per un brano di questo genere, infatti, verrebbe molto più naturale pensare a una composizione ordinata e cronologica, data dalla reiterazione nell'applicazione della cellula metrica e ritmico-melodica di base allo svolgimento lineare della narrazione. Se, però, si tiene presente la procedura compositiva illustrata dallo stesso De André nel corso dell'intervista a Rossana – riportata nel secondo paragrafo – il documento in questione cessa di costituire una sorpresa, e non fa che confermare un metodo caratterizzato dall'elaborazione dei versi a partire da una precedente e primitiva stesura in prosa della storia narrata nella canzone.

 

In questa luce, è chiaro che il testo di Bocca di rosa riportato nel quaderno corrisponde a una fase di lavorazione in cui il cantautore – pur avendo già stabilito lo svolgimento della narrazione nonché elaborato la struttura musicale di base del brano – è ancora alle prese con la resa in versi del contenuto narrativo. Non stupisce, quindi, che il buco lasciato all'interno del testo corrisponda alla sezione iniziale piuttosto che a una parte successiva, dal momento che l'intera storia, in ogni caso, è già stabilita in partenza nella versione in prosa originaria; né sorprende che all'interno di una struttura ritmico-melodica già definita i versi, previsti in numero esatto, debbano ormai soltanto prendere concretamente forma.

 

Il secondo documento dell'archivio De André che prendiamo qui brevemente in considerazione è un altro quaderno, risalente però a oltre dieci anni più tardi e, nello specifico, alla fase di scrittura e lavorazione dell'album Creuza de mä.50 Si tratta di carte dal contenuto molto più vario e composito rispetto a quelle analizzate qui sopra, che, se da un lato testimoniano il passaggio da un De André autore per lo più integrale delle proprie canzoni a un De André sempre più di frequente collaboratore di altri artisti51, dall'altro segnalano anche il progressivo ampliarsi del ruolo del cantautore nella produzione complessiva del disco, al di là di quella che è la dimensione strettamente compositiva. La maggior parte dei documenti presenti in questo quaderno, com'è ovvio, ha a che fare con la composizione dei testi in genovese dei sette brani dell'album, in ordine sparso: di volta in volta, ci troviamo di fronte a citazioni, appunti preliminari o considerazioni su determinati aspetti concernenti tematiche generali o riguardanti una singola canzone, oltre che, evidentemente, a testi o più spesso abbozzi di testi poi ripresi e sviluppati in seguito, in una continua opera di limatura e rifinitura – tipica da sempre del cantautore – che ambisce ad adattare nel modo più coerente possibile le parole alle musiche già composte da Mauro Pagani.

 

Dando invece uno sguardo alle pagine del quaderno non strettamente relative alla scrittura dei testi, abbiamo fin da subito una prova dell'enorme ruolo svolto da De André anche nel determinare – per quanto, per lo più, in fase post-compositiva – le sonorità e le particolari atmosfere acustiche di Creuza de mä, e della volontà del cantautore di lasciare così, in qualche modo, la propria impronta sul disco non solo a livello letterario e di performance, ma anche, nonostante tutto, da un punto di vista più propriamente musicale.

 

Su una pagina52, per esempio, troviamo una breve annotazione relativa ai giorni e agli orari di apertura del mercato del pesce in piazza Cavour a Genova, dove, sappiamo, fu effettuata la registrazione posta poi in chiusura alla title track, e su cui a sua volta si innesta la ritmica di Jamin-a. Altrove53 è riportato un elenco dei sette brani dell'album con, accanto a ciascuno, un appunto riguardante gli strumenti musicali da utilizzare nell'esecuzione, i quali furono probabilmente oggetto di discussione con Pagani e che, nella versione poi incisa sul disco, risultano in parte diversi. Infine, un documento che testimonia tutta la meticolosità di De André anche come produttore con una sua visione d'insieme – e che qui sotto riportiamo per intero – è una lista breve ma estremamente accurata contenente gli elementi che, a suo parere, sono da revisionare per ottenere un buon amalgama finale del testo con la musica:

 

da controllare:

– metrica versi (se è cacofonica)

– battere e levare delle frasi all'inizio, accenti intercalari

– tonalità e numero versi

– versione cantata Mauro

– versione senza canto (premix due piste di cui una libera)54

 

 

1. Muriel Clara Bradbrook, Shakespeare the Craftsman: The Clark Lectures 1968, Cambridge, Cambridge

immagini13

University Press, 1979.

2. Cfr. Giorgio Melchiori, "Shakespeare e il mestiere del teatro"; in Shakespeare: genesi e struttura delle opere, Bari, Laterza, 1994, p. 3.

3. Ivi, pp. 11-14.

4. Cfr. Luigi Viva, Non per un dio ma nemmeno per gioco. Vita di Fabrizio De André, Milano, Feltrinelli, 2002, p. 115.

5. Cfr. Marianna Marrucci, Il ‹‹mosaicista›› De André. Sulla genesi e la composizione dei testi di un cantautore; in Centro Studi Fabrizio De André (a cura di), Il suono e l'inchiostro, Milano, Chiarelettere, 2009, p. 112.

6. È notizia del 23 ottobre 2016 che Christopher Marlowe, ritenuto in passato da alcuni il vero autore dei drammi shakespeariani, sia stato invece riconosciuto e accreditato da un gruppo di ricercatori come uno dei collaboratori di Shakespeare per la trilogia di Henry VI; cfr. l'articolo di Dalya Alberge sul Guardian, Christopher Marlowe credited as one of Shakespeare's co-writers, http://bit.ly/2eIj4zH.

7. Ci si riferisce, evidentemente, al teatro di parola.

8. Cfr., fra gli altri, Umberto Eco, Apocalittici e integrati. Comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa, Milano, Bompiani, 1964.

9. Rossana, La mosca bianca della piccola musica, 11 dicembre 1967; in Claudio Sassi e Walter Pistarini, De André talk. Le interviste e gli articoli della stampa d'epoca, Roma, Coniglio, 2008, p. 36.

10. Per le dovute precisazioni a riguardo si veda, più nel dettaglio, il prossimo paragrafo.

11. Marrucci, Il ‹‹mosaicista›› De André, p. 106.

12. Ivi, p. 114.

13. Luigi Bianco (Oggi), Ho imparato a cantare ma non mostrerò mai i denti come Massimo Ranieri, gennaio 1972; in Sassi-Pistarini, De André talk, p. 131.

14. Riccardo Bertoncelli, Belin, sei sicuro? Storia e canzoni di Fabrizio De André, Firenze, Giunti, 2012, p. 87.

15. Ivi, p. 141.

16. L'unica vera e propria formazione musicale di De André consiste nelle lezioni private di violino e poi soprattutto di chitarra impartitegli in casa dei genitori quando e ancora giovanissimo; cfr. Viva, Non per un dio ma nemmeno per gioco.

17. Stefano La Via, Poesia per musica e musica per poesia. Dai trovatori a Paolo Conte, Roma, Carocci, 2006.

18. Bertoncelli, Belin, sei sicuro?, p. 132.

19. Nicola Piovani intervistato da Vincenzo Mollica in Elena Valdini (a cura di), Volammo davvero. Un dialogo ininterrotto, Milano, Bur, 2007, p. 121.

20. Stefano La Via, De André 'trovatore' e la lezione di Brassens; in Gianni Guastella e Marianna Marrucci (a cura di), Da Carlo Martello al Nome della Rosa. Musica e letteratura in un Medioevo immaginato (Semicerchio XLIV), Pisa, Pacini, 2011, p. 94.

21. Stefano La Via, Il topos della ‹‹chiara fontana›› dal Medioevo al Sessantotto; in Gianni Guastella e Paolo Pirillo (a cura di), Menestrelli e giullari. Il Medioevo di Fabrizio De André e l'immaginario medievale nel Novecento italiano, Firenze, Edifir, 2012, p. 77.

22. Cfr., fra gli altri, Antonio Tabucchi, Quando un'epigrafe diventa un racconto; in Valdini, Volammo davvero, p. 130.

23. Fabrizio De André citato in apertura a Il suono e l'inchiostro, p. III.

24. Cfr. Enrico Deregibus, Canzone d'autore: lo stato dei lavori; ne Il suono e l'inchiostro, p. 19.

25. Leonardo Colombati, "De André e Battisti al centro del canone"; ne La canzone italiana 1861-2011, Milano, Mondadori-Ricordi, 2011, pp. 1206- 1207.

26. Bertoncelli, Belin, sei sicuro?, p. 141.

27. Ivi, p. 133.

28. Cfr. Claudio Cosi e Federica Ivaldi, Fabrizio De André. Cantastorie fra parole e musica, Roma, Carocci, 2011, p. 37.

29. La poesia di Villon è Le testament, nota anche come Le grand testament (in François Villon, Poesie, Milano, Feltrinelli, 2008); la canzone di Marcy è invece File la laine.

30. Le musiche di Per i tuoi larghi occhi, La città vecchia e Il testamento sono opera di Elvio Monti, ma furono accreditate a De André perché Monti non era iscritto alla Siae; cfr. Cosi-Ivaldi, Fabrizio De André, p. 39.

31. Cfr. Viva, Non per un dio ma nemmeno per gioco, e le numerose interviste di quegli anni raccolte in Sassi-Pistarini, De André talk.

32. Cfr. Bertoncelli, Belin, sei sicuro?, p. 87.

33. Ivi, p. 73. Reverberi, tra l'altro, sostiene di aver avuto in parte anche un ruolo di autore, sia in Tutti morimmo a stento sia ne La buona novella.

34. Le uniche eccezioni sono le musiche di Ave Maria (accreditata a Gian Piero Reverberi) e quella de Il testamento di Tito (accreditata a Corrado Castellari).

35. Fanno eccezione Sogno numero due (il cui testo fu composto da De André insieme a Roberto Dané) e, ovviamente, Canzone del maggio, liberamente ispirata a Chacun de vous est concerné di Dominique Grange.

36. Mentre De André è dichiaratamente anarchico, le posizioni dei suoi tre collaboratori si avvicinano più al marxismo; cfr. Bertoncelli, Belin, sei sicuro?, p. 87.

37. Diversamente dagli altri dischi degli anni Settanta Volume 8 non è un album a tema, e non nasce a partire da un progetto ben definito.

38. Tutte le canzoni dei due dischi sono opera di De André e Bubola con l'eccezione di Avventura a Durango in Rimini (traduzione di Romance in Durango di Bob Dylan e Jacques Levy) e Ave Maria ne L'indiano (canto tradizionale sardo adattato da Albino Puddu e poi ulteriormente rielaborato).

39. Nella composizione di alcuni brani de Le nuvole intervengono anche altri autori: nel dettaglio, Massimo Bubola per il testo di Don Raffaè e Ivano Fossati per quelli delle due canzoni in genovese, Megu megun e 'Â çimma.

40. Roberto Cappelli (Mucchio Selvaggio), Cantico per i diversi, settembre 1992; in Sassi-Pistarini, De André talk, p. 349.

41. Franco Fabbri, De André il progressivo; ne Il suono e l'inchiostro, p. 98.

42. Cappelli, Cantico per i diversi, p. 350.

43. La cesura netta e definitiva tra arte e artigianato può essere essa stessa, a ben vedere, considerata un prodotto del Romanticismo.

44. Cfr., fra gli altri, Cosi-Ivaldi, Fabrizio De André, p. 41.

45. Secondo Roberto Dané è proprio questa la più grande dote di De André; cfr. Bertoncelli, Belin, sei sicuro?, p. 87.

46. Le collocazioni dei vari documenti consultati presso l'archivio De André di Siena a cui si fa riferimento qui sono quelle riportate in Marta Fabbrini e Stefano Moscadelli, Archivio d'Autore: le carte di Fabrizio De André, Roma, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, 2012. I materiali di studio e di lavoro corrispondono, nella suddivisione interna del catalogo di Fabbrini e Moscadelli, alla sezione G, e in particolare, per quanto ci riguarda, alla seconda e alla terza parte di questa sezione.

47. Collocazione: IV/197, cc. 16 num. I. 1-31 (Fabbrini-Moscadelli, p. 192).

48. Collocazione: IV/197, I. 3 (Fabbrini-Moscadelli, p. 192).

49. Collocazione: IV/197, I. 4-7 (Fabbrini-Moscadelli, p.192).

50. Collocazione: IV/200, cc. 32 num. L.1-62 (Fabbrini-Moscadelli, p. 196).

51. Valgono le precisazioni e le considerazioni già fatte a questo proposito nel paragrafo precedente.

52. Collocazione: IV/200, L. 26 (Fabbrini-Moscadelli, p. 196).

53. Collocazione: IV/200, L. 27 (Fabbrini-Moscadelli, p. 196).

54. Collocazione: IV/200, L. 44 (Fabbrini-Moscadelli, p. 196).

Capitolo II. Teoria e pratica del canzoniere deandreiano

 

 

II – 1. Aedi e rapsodi, trovatori e menestrelli

 

Se il primo capitolo si apriva con il riferimento allo Shakespeare artigiano del teatro riscoperto grazie a Muriel Bradbrook a partire dalla fine degli anni Sessanta, il presente prende le mosse da una figura che, per quanto ci riguarda, non è certo meno emblematica: quella di Omero. Il leggendario bardo cieco e i due poemi a lui tradizionalmente attribuiti – l'Iliade e l'Odissea – ci introducono efficacemente, infatti, ad alcuni caratteri-chiave dell'opera di Fabrizio De André che saranno delineati nelle prossime pagine, e che per molti aspetti ci riconducono, per l'appunto, alle origini della cultura occidentale, laddove non solo era sancito il "‹‹primato dell'acustico›› rispetto al ‹‹visivo›› [...] della φωνή sul γράμμα, della voce sulla scrittura"55, ma dove i bardi erano anche "specialisti della memoria"56 collettiva e di quella memoria fondamentalmente a servizio. Vale la pena, credo, osservare già qui in apertura come la questione omerica – la quale, riassumendo, non è altro se non il "dubbio dell'esistenza dell'autore del massimo classico greco"57 – ponga contemporaneamente al centro e alle origini della nostra tradizione letteraria l'opera in sé, e non il suo creatore.

 

Nella Grecia arcaica delle origini il poeta è l'aedo, il cantore58 che, accompagnandosi con uno strumento musicale a corda e appoggiandosi presumibilmente a melodie attingibili da un repertorio, narra in versi, di fronte a un uditorio, le gesta degli dei e degli eroi, attinte a loro volta, in gran parte, dall'ampio bagaglio della mitologia, cuore dell'identità greca. L'aedo non inventa storie, quindi, semplicemente le racconta: ce ne offrono una prova, fra l'altro, proprio i proemi dell'Iliade e dell'Odissea, dove il poeta invoca la Musa e le chiede di cantargli dei danni provocati agli achei dall'ira di Achille e del lungo peregrinare di Odisseo durante il suo νόστος, il suo ritorno a Itaca da Troia. Vicende, in entrambi i casi, già ben note al pubblico che di volta in volta si raduna ad ascoltare l'aedo, a tutti gli effetti patrimonio collettivo e materia a cui il poeta – ben lungi dall'esserne il creatore – non si limita che a dare una forma; non è un caso se, come ci ricorda Bruno Gentili, nell'Odissea il cantore Femio viene collocato tra gli artigiani.59

 

La caratteristica che, comunque, distanzia maggiormente l'aedo dal poeta così come noi lo intendiamo oggi è sicuramente quella dell'oralità. I poemi omerici, trascritti per la prima volta, si presume, tra la fine dell'VIII e l'inizio del VII secolo a.C., nascono e appartengono, originariamente, a un contesto culturale a cui la pratica della scrittura, se non del tutto sconosciuta, è comunque ancora per lo più estranea, e in cui la letteratura, data la sua marcata componente collettiva, ha una funzione sociale che fa della performance orale dell'aedo di fronte a un uditorio la sua realizzazione naturale. È bene sottolineare che l'oralità di cui si parla non riguarda soltanto la trasmissione del testo – e quindi, sostanzialmente, la sua memorizzazione – ma anche e soprattutto il suo strettissimo rapporto con l'accompagnamento musicale, da un lato, e la sua genesi, dall'altro.

 

Se risulta ormai appurato che musica e letteratura costituiscano in questa fase e in questo contesto un insieme unitario, dobbiamo notare come ciò dipenda, in gran parte, dall'ambito performativo orale in cui l'aedo si trova a operare, e in cui la melodia costituisce non solo un canale privilegiato per la trasmissione immediata del testo al pubblico e per una sua fruizione più agevole, ma anche uno strumento che facilita notevolmente il compito del poeta medesimo. È infatti opinione diffusa, tra gli studiosi, che durante i secoli precedenti all'adozione della scrittura per la redazione delle opere letterarie l'aedo non si limitasse a riprodurre davanti al suo uditorio testi precedentemente memorizzati; si pensa, invece, che un ruolo fondamentale sia stato allora svolto dall'improvvisazione, e cioè dalla capacità del cantore di narrare la propria materia conferendole una forma sempre diversa, anche a seconda del luogo, dell'occasione e della tipologia di pubblico presente.

 

Prendendo in considerazione, ancora una volta, l'Iliade e l'Odissea, se è vero che la loro mole e la loro complessità sembrano presupporre – almeno nella forma in cui i due poemi sono giunti fino a noi – la possibilità di trascrivere, già all'epoca, quantomeno alcune parti e l'intervento ordinatore – se non propriamente autoriale – di un individuo o di un gruppo ristretto, è anche vero però che numerose sono le caratteristiche formali delle due opere che ci rimandano a un universo letterario inequivocabilmente orale: ad esempio, il modo di procedere tipicamente paratattico e le espressioni e i versi formulari, che, ricorrendo simili o identici al ricorrere di simili o identiche situazioni narrative, fungono da appoggio al canto improvvisato dall'aedo, esattamente come la struttura ritmico-melodica sulla base della quale egli elabora la sua poesia.

 

Nel complesso, la letteratura greca di questo periodo ci appare più come un insieme di pratiche orali dal forte significato collettivo, che non come un corpus di testi scritti riconducibili all'attività di singoli autori; come un'entità estremamente fluida e allo stesso tempo vivace, in continuo movimento e in continua definizione: fondamentalmente, come una tradizione aperta, data non tanto dalla conservazione e dalla trasmissione di un patrimonio fisso e immutabile, ma resa viva dai continui e molteplici apporti. Una tradizione, scrive Bruno Gentili,

 

non chiusa, statica, come un prodotto finito o un repertorio di convenzioni inalterabili, ma dinamica e aperta alle innovazioni che ciascun poeta introduce, sul piano del lessico, della semantica formulare e del racconto, per adeguare il suo canto alle esigenze concrete della performance in rapporto alle diverse occasioni e alle attese del pubblico.60

 

Questo, almeno, fino a quando l'adozione sempre più diffusa della scrittura porta con sé inevitabili cambiamenti, e alla figura dell'aedo va gradualmente sostituendosi quella del rapsodo, che recita – non più canta – a memoria i versi dell'epica ormai canonizzata e normalizzata. In questa fase, se da un lato la dimensione orale continua a sopravvivere accanto a quella scritta – che con il tempo la soppianterà quasi del tutto – dall'altro le sue caratteristiche e condizioni risultano profondamente mutate: compito di chi declama, ora, non è più quello di contribuire direttamente a plasmare la tradizione con il proprio canto, ma, come ci suggerisce l'etimologia legata al verbo ῥάπτειν (cucire), quello di trasmettere testi61 già sostanzialmente fissati dalla scrittura, che il rapsodo non si limita che a "cucire insieme".

 

Risulterà certo evidente, a questo punto, l'analogia fra molte delle caratteristiche qui sopra delineate in riferimento all'epica greca e alla figura dell'aedo e certi tratti dell'opera di Fabrizio De André che sono già stati individuati nel corso del primo capitolo, e che verranno più diffusamente e accuratamente discussi nei prossimi paragrafi. Prima di passare a considerarli nel dettaglio, però, sarà bene richiamare e descrivere brevemente anche una seconda e, per quanto ci riguarda, altrettanto importante tradizione letteraria, che cronologicamente si colloca circa venti secoli dopo gli aedi: la tradizione dei trovatori, e più in generale della poesia per musica del Basso Medioevo, in gran parte eseguita e diffusa dai giullari tanto nelle corti quanto nelle pubbliche piazze.

 

Per De André, fra l'altro, si tratta in questo secondo caso di un punto di riferimento palese e indiscutibile: non solo, infatti, il cantautore vanta origini provenzali e intrattiene contatti con la lingua e la cultura francesi fin dalla più tenera età per tramite del padre62, ma soprattutto la canzone trobadorica, nello specifico, costituisce per lui un fondamentale modello all'epoca degli esordi, considerate anche le importanti mediazioni rappresentate allora dall'ascolto di Brassens e dai contatti con il chitarrista Vittorio Centanaro, di cui si è già avuto modo di dire. Una significativa testimonianza, a tal proposito, ci viene fornita da varie interviste raccolte da Sassi e Pistarini e risalenti agli anni appena successivi all'esordio, in cui spesso si fa riferimento – sia da parte del giornalista di turno sia da parte di De André medesimo – a un quasi mai esaustivamente chiarito carattere "medievale" del cantautore, con il richiamo diretto, peraltro, a figure come quelle del trovatore e del menestrello.

 

Un articolo apparso su TV Sorrisi e Canzoni nel luglio del 1967, per esempio, è intitolato Fabrizio De André, il menestrello in microsolco, e appena sotto il titolo, accanto alla fotografia che lo ritrae con la chitarra in mano, leggiamo una dichiarazione di De André che afferma di essere senz'altro un cantautore, ma di preferire a questo termine, secondo lui vago e impreciso, quello più specifico di trovatore, con esplicito riferimento ai provenzali.63

 

Non mi soffermerò ora sulle ovvie e numerose differenze che separano l'universo della poesia per musica medievale da quello della canzone d'autore novecentesca, persino da quella – pur del tutto peculiare – di Fabrizio De André. Invece, mi concentrerò su quegli aspetti che, anche considerata l'enorme distanza tra le due tradizioni e i due diversi modi di concepire poesia e musica, contribuiscono indiscutibilmente ad avvicinare il cantautore a quel Medioevo da lui e intorno a lui continuamente evocato. A tal fine, sarà bene innanzitutto precisare che i due termini utilizzati nell'articolo citato sopra come sinonimi – trovatore e menestrello – indicano in realtà, nella cultura medievale, due figure ben distinte.

 

I trovatori – nella Provenza del XII e del XIII secolo – sono innanzitutto gli autori e poi spesso anche gli esecutori professionisti, legati a filo doppio all'ambiente delle corti, di composizioni liriche in lingua d'oc per lo più in forma di canzone, pensate per l'accompagnamento musicale di uno strumento a corda.

Questi testi, che hanno di solito come motivo centrale il cosiddetto "amor cortese", ricevono quindi dai loro autori tanto una sistemazione scritta quanto una melodia abbinata che ne specifica la destinazione squisitamente orale, connessa con l'esecuzione cantata dello stesso trovatore o di altri, così da risultare di una duplice natura, sospesa tra la scrittura e l'oralità, e tra la musica e la poesia. D'altra parte, se sarebbe sbagliato sottovalutare o addirittura perdere di vista la dimensione relativa alla performance musicale, bisogna certamente riconoscere che al centro di queste composizioni ci sia senza dubbio il testo letterario, e che la melodia – per quanto, anche in questo caso, elemento strutturale e determinante per la natura della composizione stessa – sia in fin dei conti, più che altro, una componente di appoggio per la declamazione dei versi. Ce lo dimostra il fatto che, come nota Henri-Irénée Marrou64, a fronte dei più di duemilacinquecento testi trobadorici a noi pervenuti, abbiamo oggi a disposizione soltanto poche centinaia delle corrispondenti melodie; il che, oltre a costituire, pare, una prova della scarsa considerazione a esse riservata, sembrerebbe anche informarci del loro carattere essenzialmente formulaico.65

 

Per quanto riguarda invece i menestrelli, è sulla questione dell'autorialità che si gioca un netto scarto: a differenza dei poeti-compositori, infatti, questi ultimi sono di norma intrattenitori dediti esclusivamente all'esecuzione di materiale composto da altri, o tramandato per mezzo della memoria collettiva; totalmente immersi nell'oralità, quindi, ed estranei o comunque lontani dalla pratica della composizione e della scrittura. Se si tralascia il significato più storicamente specifico del termine – che li vorrebbe a corte, alle dirette dipendenze di un signore66 – , i menestrelli rappresentano inoltre, a tutti gli effetti, una sottocategoria dei giullari, e cioè di quelle figure dedite, nel Basso Medioevo, praticamente a ogni forma di intrattenimento, e presenti non solo nei castelli e nelle corti signorili, ma anche e soprattutto nelle pubbliche piazze, girovaghi per natura e per mestiere.

 

È proprio forse quest'ultimo aspetto a legittimare e a rendere plausibile il richiamo alla figura del menestrello in riferimento a Fabrizio De André, perché se è vero che da un lato il suo essere autore di canzoni sembrerebbe avvicinarlo più che altro, come abbiamo visto, ai trovatori, dall'altro almeno un paio di caratteristiche della sua particolare personalità di cantautore sono evidentemente e indiscutibilmente "giullaresche". La prima ha a che fare con la sua tendenza a ibridare le forme della tradizione nel momento stesso in cui le riprende, e a mescolare in modo estremamente originale elementi colti con elementi popolari. La seconda, di carattere più ideologico che strettamente formale, riguarda la figura del giullare – come ben scrive Sandra Pietrini – più che altro come "filigrana"67, e si concretizza nell'attitudine di De André a ribaltare parodisticamente il punto di vista comune e a mettere provocatoriamente in discussione la morale dominante.

 

 

II – 2. Tre dialettiche-chiave

 

L'excursus delle pagine precedenti, oltre a disegnare una sorta di filo rosso che unisce gli aedi e i rapsodi della Grecia arcaica, i trovatori e i menestrelli medievali e il cantautore novecentesco Fabrizio De André, pone anche in evidenza una serie di concetti – alcuni dei quali già introdotti o accennati nel primo capitolo – che è ora giunto il momento di definire in modo esaustivo e di disporre all'interno di uno schema che occorrerà tenere presente anche in seguito, per l'analisi delle opere. Si tratta, nello specifico, di tre coppie di concetti opposti, muovendosi tra i quali l'arte cantautorale di De André si definisce dialetticamente di continuo:

 

immagini2

Vediamo ciascuna delle tre coppie nel dettaglio. Di oralità si è ampiamente discusso in riferimento alle figure analizzate nel paragrafo precedente: al canto improvvisato dell'aedo, che a partire da una melodia e da una metrica già sostanzialmente definite dà una forma sempre nuova alla materia eroica e mitologica; al rapsodo che "cuce insieme" i versi nel momento stesso in cui li recita; alle canzoni trobadoriche, di cui le melodie formulaiche abbinate ai testi precisano la destinazione performativa; infine, agli intrattenimenti dei menestrelli, le cui esecuzioni sono affidate per lo più all'esercizio della memoria. Come abbiamo in parte già visto, dinamiche simili a quelle descritte per le suddette figure si ritrovano anche in De André.

 

Alla dimensione dell'oralità, connessa per sua natura, più che altro, con la componente musicale68, si sovrappone però con forza, nell'opera del cantautore, anche quella della scrittura, legata non solo alla mutata funzione della poesia e della musica attraverso i secoli, ma anche a quella fondamentale ispirazione letteraria che costituisce, sappiamo, la vera ragion d'essere delle sue canzoni. L'opera di De André oscilla quindi in continuazione tra queste due dimensioni, rivelando una fondamentale dialettica interna tra le componenti musicale e performativa proprie di qualsiasi canzone e quel testo in cui si concretizza l'ambizione fondamentalmente letteraria dell'autore.

 

Persino nei concerti dal vivo – che il cantautore inizia a tenere soltanto a partire dalla metà degli anni Settanta – , se sappiamo che da un lato egli preferiva non allontanarsi, durante l'esecuzione, dalle versioni delle canzoni stabilite in sede di registrazione ed era solito richiedere esplicitamente ai musicisti che lo affiancavano di non improvvisare sulla partitura69, dall'altro abbiamo anche diverse testimonianze del fatto che nemmeno i testi fossero, in realtà, così fissi e inalterabili come si potrebbe immaginare, e che a volte, anzi, essi venissero più o meno pesantemente ritoccati a seconda dell'occasione.

 

Nell'archivio di Siena, per esempio, è conservato un documento70 con il testo integrale di una versione di Via della Povertà – a sua volta traduzione a firma De André-De Gregori di Desolation Row di Bob Dylan71 – in cui ai nomi dei personaggi che popolano il vicolo dylaniano – da Cenerentola a Romeo, dal Buon Samaritano a Ofelia, da Casanova a Ezra Pound – vengono sostituiti quelli di personalità di spicco nell'Italia degli anni Ottanta, tra cui Pertini, Craxi, papa Woityla, Berlinguer, Sindona, Agnelli, Bearzot; il tutto, presumibilmente, in previsione di un concerto in cui il cantautore si sarebbe ritagliato un po' di spazio per la satira politica e sociale. Non può che risultare evidente, anche qui, l'analogia tra l'operazione compiuta da De André su questo testo e quella dell'aedo che adatta in continuazione la propria materia all'occasione e al pubblico che si trova di fronte, o la somiglianza tra la parodia deandreiana e l'irriverenza che abbiamo individuato come tipica del giullare.

 

La seconda coppia di concetti riguarda invece la dialettica colto-popolare, e quindi la compresenza, nell'opera di De André, di elementi – sia letterari che musicali – ripresi tanto dalla tradizione colta quanto dalla tradizione popolare, e la sintesi estremamente originale che ne deriva. Bisognerà intanto chiarire quale significato abbia in questo contesto il termine "popolare", considerata la stratificazione semantica a cui l'aggettivo è stato ed è tuttora soggetto. In contrapposizione a "colto", "popolare" non è qui da intendersi come sinonimo né di "pop" – e quindi come espressione della cultura di massa e insieme prodotto dell'industria culturale – né tantomeno di "popolaresco" – e cioè proprio delle classi economiche e sociali subalterne; al contrario, "popolare" va inteso qui nel suo significato originario – quello più puro, indicatoci dall'etimologia – in quanto relativo a un popolo come insieme di individui accomunati dai medesimi costumi e dalle medesime tradizioni. Nella stessa accezione, in fin dei conti, con cui lo intendeva Béla Bartók quando raccoglieva le musiche popolari nelle campagne dell'Europa orientale, e ne scriveva distinguendole molto chiaramente da quelle popolaresche, espressione invece del mondo borghese e cittadino.72

 

Si è detto che la mescolanza di elementi colti con elementi popolari riguarda in De André tanto la componente del testo quanto quella della musica. Basti pensare a un disco come Tutti morimmo a stento, dove la forma colta della cantata à la Bach non esclude la presenza di forme tipicamente popolari quali la ballata e il girotondo, o ancora a un disco come Le nuvole, in cui il palese rimando letterario ad Aristofane e la citazione dell'opera buffa e di altri generi della musica colta sono controbilanciati da elementi inequivocabilmente popolari fra cui spicca l'utilizzo dei dialetti genovese e sardo.

 

Bisogna notare, comunque, che, essendo di solito l'ispirazione di De André di matrice letteraria e risalendo essa spesso e volentieri a una precedente lettura, i riferimenti colti – e letterari – tendono ad abbondare soprattutto per quanto riguarda la componente del testo, pur non essendo raro imbattersi in forme come quelle, per l'appunto, della ballata e della filastrocca popolare (oltre a Girotondo, si pensi per esempio a Volta la carta). Gli elementi testuali di derivazione colta coprono sostanzialmente due diverse tipologie: la prima riguarda l'utilizzo di forme poetiche dalla consolidata tradizione letteraria, quali la pastorella (Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers) o la chanson de toile73 (Fila la lana), o quantomeno la ripresa di situazioni narrative ed espedienti stilistici ascrivibili alla suddetta tradizione; la seconda consiste invece nel recupero più o meno palese e nella rielaborazione più o meno massiccia dei testi di altri autori, del presente e del passato (la Ballata degli impiccati, per esempio, trae spunto dalla Ballade des pendus di Villon74, mentre in Creuza de mä, come vedremo, sono frequenti e numerosi, anche se probabilmente non altrettanto evidenti, i riferimenti all'Odissea).

 

Per quanto riguarda invece la componente musicale, se nemmeno qui sono esclusi gli elementi di derivazione colta (il tema di Caro amore, per esempio, è tratto dal Concerto d'Aranjuez di Joaquín Rodrigo, così come quello della Canzone dell'amore perduto, abbiamo visto, dal Concerto in re maggiore per tromba, archi e basso continuo di Telemann), nell'opera di De André si rintracciano altrettanto e persino più spesso ritmi riconducibili alle danze della tradizione popolare – quali il valzer, la giava, la giga e la tarantella – , una strumentazione che unisce – soprattutto dall'inizio degli anni Ottanta in poi – a quella più tradizionale e consueta della canzone una significativa sezione etnica e, in generale, una semplicità ritmico-melodica e armonica di base che abbiamo già avuto modo di descrivere e che ci rimanda, qui, a quel carattere formulaico della musica osservato a proposito degli aedi della Grecia arcaica e poi dei trovatori medievali. La terza e ultima dialettica, infine, riguarda la tensione fra dimensione autoriale e dimensione creativa collettiva, e, nel ricondurci alle osservazioni fatte in proposito nel corso del primo capitolo, ci introduce al contempo nella particolarissima idea di tradizione che traspare dall'opera di Fabrizio De André, e che proveremo ora a delineare.

 

 

 

II – 3. Quale tradizione?

 

Tornando per un istante allo schema di qualche pagina fa, si noterà come i sei concetti-chiave cui era dedicato il paragrafo precedente siano stati lì disposti in modo da mettere in evidenza non solo le tre dialettiche individuate alla base dell'opera di De André, ma anche la contrapposizione di due diversi poli, corrispondenti, ciascuno, a quello che potremmo definire un particolare modello culturale. Il polo di destra, nel quale confluiscono i concetti di "scrittura", "colto" e "autorialità" corrisponde a un modello culturale incentrato sulla figura dell'autore come unico creatore e solo vero "proprietario" dell'opera, la quale riceve da lui una sistemazione scritta che la rende fissa e definitiva, e la quale entra così a far parte di un canone di riferimento insieme ad altre opere del medesimo tipo. Il polo di sinistra, al contrario, con i tre concetti di "oralità", "popolare" e "collettività", si riferisce a un modello culturale opposto, che ha al suo centro non l'autore ma l'opera stessa, la quale però, lungi dall'essere qualcosa di fisso e immutabile, è concepita più come un processo che come un prodotto, a cui ciascuno può contribuire e che appartiene non al singolo, ma alla collettività. Mentre, quindi, possiamo facilmente identificare il primo modello con la tradizione – sia letteraria che musicale – colta e con quel canone che viene normalmente insegnato a scuola, con il secondo modello ci avviciniamo molto di più, invece, a quella cultura popolare tramandata oralmente in mille forme e in mille varianti, e per secoli affidata alla memoria collettiva della comunità.

 

Abbiamo detto che l'arte di De André si definisce dialetticamente di continuo muovendosi per l'appunto fra questi due diversi poli. Non possiamo fare a meno di notare, però, come ciò che contraddistingue maggiormente il cantautore all'interno del panorama della canzone sia proprio l'enorme peso esercitato, nel suo caso, dal modello culturale rappresentato nella parte sinistra del nostro schema. Se è vero, infatti, che questo peso dipende in parte dalla natura stessa dell'arte cantautorale, e in particolare – come abbiamo visto – dalle sue componenti musicale e performativa, nel caso di De André non basta certo questo a rendere ragione del metodo compositivo che abbiamo ampiamente descritto nel primo capitolo, né delle particolari forme assunte con lui dalla scrittura, che tratteremo nel dettaglio nelle prossime pagine. A motivare, invece, i numerosi punti di contatto tra il cantautore e le figure dell'aedo, del rapsodo, del menestrello e del trovatore – tutte ampiamente collocabili, con la parziale e significativa eccezione di quest'ultimo – all'interno del secondo modello culturale di riferimento, c'è se mai, tutt'al più, una concezione della tradizione del tutto peculiare.

 

Nel suo libro Citare la tradizione75, scrivendo a proposito di T. S. Eliot e della quinta e ultima sezione del poema The Waste Land, Riccardo Campi spiega il particolare utilizzo che il poeta americano fa delle citazioni nei versi conclusivi76, inquadrando brillantemente il tutto in un'idea che vale la pena di considerare, qui, quantomeno nei suoi tratti salienti. Partendo dal presupposto che sia obiettivamente impossibile distinguere sempre e comunque il lavoro dell'immaginazione dal lavoro della memoria, e che quindi in alcuni casi la citazione di opere altrui diventi di fatto un'appropriazione inconscia e inconsapevole77, Campi interpreta l'operazione compiuta da Eliot nel finale di The Waste Land come un tentativo da parte del poeta di salvare la tradizione – la quale, così com'è, non può essere altro che rovina – recuperandola e però allo stesso tempo, necessariamente, rinnovandola, e collocandola – pur in forma di frammenti – in un nuovo contesto che sia in grado di restituirle significato e di renderla attuale. Lo stesso Eliot, del resto, distingueva nel suo celeberrimo saggio Tradition and the Individual Talent fra "tradition" e "archaeology", e scriveva che "tradition [...] cannot be inherited, and if you want it you must obtain it by great labour"78. La tradizione, in questa prospettiva, è vista più che altro come una meta a cui bisogna giungere e che anzi è necessario riconquistare di continuo, e non come un prodotto del passato da limitarsi a conservare.

 

È superfluo sottolineare l'enorme distanza che separa T. S. Eliot da Fabrizio De André, soprattutto considerando le forme totalmente diverse che la loro arte assume realizzandosi nel concreto. La stessa idea di tradizione, in fin dei conti, differisce nei due sotto vari aspetti, eppure presenta indiscutibilmente alcuni tratti comuni. In particolare, come in Eliot così anche in De André la tradizione è concepita più come un punto di arrivo che come un punto di partenza, e come qualcosa che, per essere mantenuto vivo e vitale, deve essere continuamente rinnovato e rielaborato, non certo tramandato così com'è.

Come ancora una volta ci suggerisce l'etimologia, del resto, la tradizione non ha soltanto a che fare con l'atto del trasmettere, e quindi del consegnare qualcosa a qualcun altro nella stessa forma in cui lo si era ricevuto, ma anche con l'atto del tradire, e cioè, sostanzialmente, dell'appropriarsene innanzitutto, e poi dell'alimentarlo mettendoci del proprio, e restituendolo in una forma necessariamente diversa da quella di partenza.79

 

 

II – 4. In pratica (proposta aperta di classificazione)

 

Prima di dedicarci nel dettaglio ai tre dischi Non al denaro non all'amore né al cielo, Canzoni e Creuza de mä prenderemo dunque in considerazione il canzoniere deandreiano nel suo complesso e, cercando di individuare al suo interno operazioni e modalità ricorrenti, proveremo ad abbozzarne una sorta di classificazione; la quale – pur con tutti i limiti del caso e delle classificazioni in genere – avrà un duplice vantaggio: essa ci servirà, innanzitutto, come bussola per orientarci nella vasta produzione di Fabrizio De André, e al contempo ci sarà utile per identificare come, nella pratica, si concretizzi la particolare idea di tradizione che abbiamo delineato nel paragrafo precedente.

 

In un primo gruppo faremo rientrare i numerosi brani originali, ovvero quei brani che, pur rivelando, in genere, un grande debito nei confronti di altri autori e di altre opere così come della tradizione sia colta che popolare, non nascono palesemente a partire da un testo – letterario o musicale – già esistente, ma dalle intuizioni di De André e dei suoi collaboratori. In un secondo gruppo collocheremo invece gli adattamenti, e quindi quelle canzoni il cui testo o la cui musica vengono creati su misura per una musica o per un testo – rispettivamente – preesistenti. La terza categoria comprenderà le traduzioni, e cioè le versioni in italiano a opera di De André di canzoni originariamente in lingua inglese o francese. La quarta categoria sarà dedicata alla modalità della riscrittura, e riguarderà quindi l'operazione compiuta dal cantautore e dalla sua squadra in alcuni concept album che "riscrivono" un'opera letteraria complessa, non solo arricchendola della dimensione musicale, ma modificandone radicalmente anche la forma e piegandone il contenuto ideologico al proprio messaggio. Il quinto gruppo, infine, si rivolgerà esclusivamente alla più particolare e radicale delle operazioni compiute da De André nei confronti della tradizione: quella dell'album Creuza de mä80, a cui sarà dedicato per intero l'ultimo capitolo di questo lavoro e che consiste in una originalissima rielaborazione e riappropriazione di forme e linguaggi tradizionali, sia linguistici e letterari che musicali.

 

a) Brani originali

La categoria dei brani originali è – come ci si potrebbe aspettare – numericamente la più corposa delle cinque. Si tratta, è evidente, di un gruppo estremamente vario ed eterogeneo, che raccoglie opere anche molto diverse l'una dall'altra per periodo di composizione, tematiche, forme e linguaggi utilizzati; tuttavia, se c'è una caratteristica che, io credo, le accomuna tutte quante, essa consiste proprio in quella tendenza a recuperare materiale già esistente, ad appropriarsene e a riutilizzarlo secondo i propri modi e i propri scopi, che abbiamo già individuato come tipica di Fabrizio De André. Ed è proprio in questa tendenza, innanzitutto, che la particolare idea di tradizione delineata nel paragrafo precedente si concretizza: una tradizione, potremmo dire, come organismo vivente, che per continuare a vivere non può mai rimanere uguale a se stessa, ma deve continuamente cambiare e adattarsi a nuove condizioni e nuove circostanze. A esemplificare questa prima categoria ho scelto due brani scritti a circa quindici anni di distanza l'uno dall'altro: Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers e Volta la carta.

 

Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers, pubblicato per la prima volta su 45 giri nel 1963 come lato B de Il fannullone e inserito poi in Volume 1 nel 196781, nasce, secondo la testimonianza del co-autore Paolo Villaggio82, da un'intuizione iniziale di De André, il quale aveva scritto alla chitarra un tema per corno e voleva sviluppare questo tema in forma di canzone. Partendo da una musica già definita nei suoi tratti fondamentali e nel suo strumento tematico, quindi, De André e l'amico Villaggio si divertono a comporre insieme il testo, che, a sua volta, costituisce il punto di partenza per il completamento della sezione musicale e – non di minore importanza – per lo splendido arrangiamento di Gian Piero Reverberi.83 Carlo Martello è perciò, in tutto e per tutto, un brano originale, interamente composto e curato da De André e dai suoi collaboratori; eppure, i riferimenti alla tradizione – letteraria, in primis, ma anche musicale – sono così abbondanti e smaccati da risultare una componente tutt'altro che secondaria, e da racchiudere in sé, in fin dei conti, il senso stesso della canzone, costituendo essi lo specchio formale dell'abbassamento ironico cui è sottoposta la figura di re Carlo.

 

Mentre la marcia scandita dal corno nelle battute iniziali ci introduce in ambiente inequivocabilmente epico – ed epico francese, nello specifico84 – , ai toni da chanson de geste delle prime strofe va presto a sovrapporsi, con l'entrata in scena della "pulzella", una situazione narrativa radicalmente estranea a questo genere, e tipica invece della pastorella. La sovrapposizione delle due forme letterarie, tuttavia, non è segnalata né dalla struttura musicale – che si ripete sostanzialmente uguale dall'inizio alla fine, secondo lo schema AAB-AAB-AAB-AAB-AA85 – né, soprattutto, dalla lingua e dallo stile, ovunque artificiosamente altisonanti e ricchi di arcaismi; sono soltanto l'arrangiamento di Reverberi e la performance di De André, in modo discreto eppure estremamente efficace, a caratterizzare ironicamente i personaggi e a sottolineare l'effetto parodico complessivo. Ed è proprio la parodia il filtro attraverso cui il cantautore, qui, può approcciarsi alla tradizione e permettersi di recuperarne le forme, riempiendole di un significato nuovo e coerente con la sua poetica e la sua ideologia.

 

Per quanto riguarda invece Volta la carta, scritta insieme a Massimo Bubola e inserita nell'album Rimini – del 1978 – subito dopo la title track86, anche in questo caso assistiamo a un recupero massiccio di forme e linguaggi tradizionali e a un loro riutilizzo originale, sebbene ciò avvenga, rispetto a Carlo Martello, in chiave decisamente più popolare, e sia da ricollegare alla particolare tematica dell'album – ovvero la piccola borghesia italiana. La musica popolare, che viene chiaramente distinta da Bubola – intervistato da Bertoncelli87 – da quella nazional-popolare e che costituisce insieme al rock di matrice anglosassone l'anima sonora di Rimini, è presente in Volta la carta sotto forma di giga, e quindi di danza veloce in tempo di sei ottavi:

immagini3

Nel testo, invece, il recupero di elementi tradizionali avviene sostanzialmente su due livelli. Il primo è quello della forma complessiva di filastrocca in rima, su cui però De André e Bubola cuciono – con una tecnica che ricorda molto quella dei rapsodi – immagini e suggestioni per lo più estranee al testo di partenza nelle versioni tramandate, nonché una storia che, con il suo chiaro svolgimento lineare, ne arricchisce e movimenta la struttura iterativa. Il secondo livello ha invece a che fare con i numerosi riferimenti testuali, più o meno palesi, ad altre filastrocche o canzoni popolari: il nome della protagonista Angiolina, per esempio, rimanda immediatamente alla canzone tradizionale veneta di cui Bubola parla a Bertoncelli nel corso dell'intervista, mentre il personaggio di Madama Dorè, presente nell'ultima strofa, è lo stesso di una nota filastrocca per bambini.88

 

 

b) Adattamenti

All'interno della categoria degli adattamenti possiamo distinguere due gruppi, a seconda che a venire adattato sia un testo oppure una musica preesistente. Un palese esempio del primo tipo è rappresentato da S'i' fosse foco, pubblicato su Volume 3 nel 196889 e adattamento in forma musicata del più noto sonetto di Cecco Angiolieri.90 Se la fascinazione di De André per il Medioevo è ormai cosa nota, nemmeno la scelta del poeta senese deve particolarmente stupire, dal momento che il suo antistilnovismo, il suo stile crudo e diretto e insieme le tematiche predilette del vino, del gioco e dell'amore carnale non potevano che costituire fonte di spunto e di ispirazione per il cantautore, soprattutto all'epoca.

 

L'operazione compiuta da De André consiste qui sostanzialmente nella composizione, a partire dal sonetto di Angiolieri, di una musica che a esso si adatti: il testo di partenza, quindi, non viene per nulla modificato, senonché, secondo una procedura tipica della ballata, nell'adattamento deandreiano la prima stanza viene ripetuta pari pari anche in chiusura, a garantire una perfetta circolarità. Il tema musicale principale in tre ottavi e la ritmica fortemente scandita che caratterizzano le due quartine iniziali vengono anticipati da chitarre e tamburo all'interno di una breve introduzione strumentale, ripetuta poi anche in seguito a inframmezzare le due strofe:

 

immagini4

 

A segnalare il passaggio testuale dal fronte alla sirma, invece, corrisponde il passaggio a un secondo tema – sempre in tre ottavi – e a una ritmica più movimentata grazie anche all'utilizzo della fisarmonica, salvo poi il ritorno al tema principale in chiusura, in corrispondenza della ripetizione circolare della prima quartina.

 

Operazione opposta e insieme del tutto peculiare è invece quella compiuta nel caso de La morte, brano contenuto, come Carlo Martello, in Volume 191. Qui, infatti, De André adatta si un testo da lui composto a una musica preesistente, ma, a differenza di quanto avviene in Caro amore o La canzone dell'amore perduto – dove il testo viene adattato, come abbiamo visto, a un precedente tema strumentale – ne La morte la musica di riferimento è invece quella di un'altra canzone, e precisamente di Le verger du roi Louis di Georges Brassens.92

De André, quindi, recupera anche qui, come tante altre volte, un brano del maestro francese, ma anziché tradurne il testo – il quale, peraltro, è di fatto una poesia di Théodore de Banville che Brassens aveva a sua volta musicato – , decide di mantenerne la musica, e di cucirvi sopra parole originali. Dalla poesia di Banville dedicata al verziere del re Luigi, e cioè al terreno riservato alle impiccagioni nella Francia pre-rivoluzionaria, si passa, nella canzone di De André, al tema della morte in generale, la quale compare nei suoi versi personificata tra suggestioni medievali ed echi di poesia contemporanea:

 

La morte verrà all'improvviso

Avrà le tue labbra e i tuoi occhi

Ti coprirà d'un velo bianco

Addormentandosi al tuo fianco.

Nell'ozio, nel sonno, in battaglia

Verrà senza darti avvisaglia

La morte va a colpo sicuro

Non suona il corno né il tamburo.

[...]93

 

Da notare soprattutto è come, grazie alla straordinaria capacità del cantautore di recuperare materiale di varia provenienza e di riutilizzarlo in modo assolutamente libero e originale all'interno di un nuovo contesto e di un nuovo "impasto", la palese citazione da Pavese del primo e del secondo verso (Verrà la morte e avrà i tuoi occhi94) non solo si adatti inaspettatamente alle immagini più convenzionali e topiche della morte giustiziera e livellatrice, ma finisca anche per renderle più attuali e vicine a una sensibilità contemporanea; cosicché, se da un lato il gusto medievaleggiante dell'insieme è indubbio – ed è sottolineato anche dal particolare arrangiamento, con la chitarra ad accompagnare la voce nelle strofe e il flauto dolce e il tamburo nell'introduzione e negli intermezzi95 – dall'altro la canzone risulta comunque, nel complesso, estremamente moderna.

 

c) Traduzioni

Una porzione relativamente modesta – anche se non per questo secondaria per importanza – del canzoniere deandreiano riguarda le traduzioni, ovvero i brani – opera solitamente di altri cantautori – che De André traduce in italiano dall'inglese o dal francese. Bisogna notare che la pratica della traduzione non coinvolge indistintamente tutta quanta l'attività del cantautore, ma piuttosto determinate fasi all'interno della sua carriera, e in particolare gli esordi (e quindi, sostanzialmente, gli anni Sessanta) e il periodo compreso tra la pubblicazione di Canzoni e quella di Rimini, a metà degli anni Settanta.

 

Se nel primo caso il ricorso a questa pratica può essere spiegato con una stretta e vitale vicinanza, all'epoca, ai modelli francesi – primo fra tutti Brassens – , nel secondo la motivazione è piuttosto da ricollegarsi a una crisi creativa e prima ancora personale e familiare96, che se da un lato ostacola o addirittura in alcuni casi inibisce la creazione di brani originali, dall'altro favorisce invece l'esercizio sull'opera altrui. Del resto, vista e considerata l'ormai nota tendenza di De André ad appropriarsi liberamente tanto di forme tradizionali quanto di materiale composto da altri, la traduzione non può che apparire, in questa luce, come una delle tante modalità attraverso cui tale tendenza effettivamente si concretizza. Gli aspetti più tecnici in merito alla teoria e alla pratica traduttologica verranno trattati in seguito, relativamente ai brani inseriti nel disco Canzoni, del 1974; per il momento, ci limiteremo invece a considerazioni di carattere più generale, anche attraverso alcuni esempi.

 

Si è detto che le lingue da cui De André traduce sono l'inglese e il francese. Quest'ultimo, appreso in casa dal padre ancora durante l'infanzia, costituisce il fondamentale tramite attraverso il quale il cantautore si accosta inizialmente alla cultura della canzone e alla pratica della scrittura musicale; non è un caso, quindi, se le sue prime traduzioni vengono realizzate proprio a partire da brani di cantautori francesi, e in particolare dal prediletto Brassens. Tra queste annoveriamo per esempio Il gorilla97, versione italiana della celebre Le gorille98 contenuta in Volume 3, in cui il giovane De André, pur non allontanandosi quasi mai eccessivamente dalle immagini e dallo spirito del testo di partenza e pur intendendo con ogni probabilità la propria trasposizione più come un omaggio al maestro che non come un brano con una sua effettiva autonomia, mostra comunque di non temere il confronto e soprattutto di non farsi troppi scrupoli nel maneggiare e nel manipolare il testo all'occorrenza, cosicché dalle nove strofe originarie si passa nella sua versione a otto.

 

Per quanto riguarda invece le traduzioni dall'inglese – lingua appresa da De André molto più tardi e mai davvero padroneggiata del tutto – dopo il lavoro condotto insieme alla sua insegnante Maureen Rix sulla ballata tradizionale Geordie nel 1966, bisogna attendere fino all'incontro e alla successiva collaborazione con Francesco De Gregori a metà degli anni Settanta, perché l'apertura verso la musica di Bob Dylan e Leonard Cohen dia i suoi frutti in questo senso.

 

La frequentazione della canzone d'autore e del rock in lingua inglese prosegue durante gli anni di lavoro con Massimo Bubola, insieme al quale De André traduce la dylaniana Romance in Durango99 e la inserisce poi nell'album Rimini. Rispetto a quanto osservato per Il gorilla, è evidente che l'operazione compiuta in questo caso sia molto più radicale: a venire tradotto, in Avventura a Durango100, non è soltanto il testo nel suo significato letterale o possibilmente metaforico, ma anche e soprattutto l'universo di rimandi e riferimenti culturali che fa da cornice alla storia avventurosa e insieme romantica della coppia di protagonisti (e la traduzione del titolo, a questo proposito, davvero non poteva essere più nel segno):

 

[...]

Sold my guitar to the baker's son

For a few crumbs and a place to hide

But I can get another one

And I'll play for Magdalena as we ride.

 

Ho dato la chitarra al figlio del fornaio

Per una pizza ed un fucile

La ricomprerò lungo il sentiero

E suonerò per Maddalena all'imbrunire.

 

[...]

Then the padre will recite the prayers of old

In the little church of this side of town

I will wear new boots and an earring of gold

You'll shine with diamonds in your wedding gown. […]101

 

Il frate pregherà per il perdono

Ci accoglierà nella missione

Avrò stivali nuovi, un orecchino d'oro

E sotto il velo tu farai la comunione. [...]102

 

Si noti come, pur mantenendo l'ambientazione messicana per mezzo dei riferimenti agli Aztechi, alla tequila e alla corrida, nonché la sceneggiatura da "spaghetti-western"103 dell'originale, De André riesca a far risultare il suo testo immediatamente familiare all'orecchio italiano, e allo stesso tempo a connotare geograficamente i suoi protagonisti in modo da renderli in tutto e per tutto corrispondenti ai due fuggitivi dylaniani. Il rimando alla pizza nella seconda strofa (la prima delle due riportate qui sopra), ben lungi dall'essere casuale, serve, in particolare, ad anticipare la più estrema delle traduzioni compiute da De André e Bubola in questo testo, e cioè la traduzione dello spagnolo maccheronico che Dylan mescola all'inglese nel ritornello con un napoletano altrettanto maccheronico mescolato invece all'italiano:

[...]

No llores, mi querida

Dios nos vigila

Soon the horse will take us to Durango

Agarrame, mi vida

Soon the desert will be gone

Soon you will be dancing the fandango. [...]104

 

Nun chiagne, Maddalena

Dio ci guarderà

E presto arriveremo a Durango

Strignime, Maddalena

'Stu desert' finirà

Tu potrai ballare o' fandango. [...]105

 

 

d) Riscritture

Se fino a ora abbiamo necessariamente considerato il lavoro compiuto su brani a sé stanti, in questa sezione ci occuperemo invece di una modalità che trascende la singola canzone e coinvolge, al contrario, un intero album – e per essere ancora più precisi, un concept album. Come abbiamo anticipato sopra, infatti, l'operazione della riscrittura riguarda l'intervento su di un'opera letteraria complessa, il che evidentemente esclude la singola poesia – isolata o all'interno di una raccolta – e il testo della singola canzone. All'interno del canzoniere deandreiano, di riscrittura vera e propria si può in realtà parlare in due soli casi, a proposito di due concept realizzati a un anno di distanza l'uno dall'altro: La buona novella, del 1970, e Non al denaro non all'amore né al cielo, del 1971. Del secondo, basato sull'Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, ci occuperemo nel dettaglio nel prossimo capitolo; in questa sede, proveremo invece a delineare brevemente i caratteri di questa particolare operazione considerando il lavoro su La buona novella, ispirato, com'è noto, ai Vangeli apocrifi.

La buona novella106, scritto quasi interamente da De André con l'assistenza del produttore Roberto Dané per la redazione dei testi e quella di Gian Piero Reverberi per le musiche e gli arrangiamenti107, è il secondo concept album realizzato dal cantautore dopo Tutti morimmo a stento, e si differenzia radicalmente da quest'ultimo per il fatto che, mentre a fungere da filo conduttore tra i brani di Tutti morimmo a stento era soltanto la tematica della morte – oltre che la forma complessiva di cantata à la Bach – , il disco del 1970 si ispira invece dichiaratamente a un corpus di testi letterari preesistenti, i quali forniscono non solo la materia primaria della narrazione – e quindi le storie di Maria e Gesù di Nazaret – ma anche e soprattutto la particolare prospettiva da cui queste storie sono narrate.

 

L'operazione della riscrittura, quindi, consiste qui innanzitutto nel recupero del materiale narrativo dei Vangeli apocrifi e nel suo riutilizzo all'interno di un nuovo contesto e in una forma del tutto estranea a quella di partenza, che è naturalmente quella della canzone. De André sceglie di strutturare il lavoro attorno ad alcuni episodi centrali (l'infanzia di Maria, il suo matrimonio con Giuseppe, il concepimento e la nascita di Gesù, la crocifissione) e di inserire il tutto all'interno di una cornice formata dai due cori posti all'inizio e alla fine dell'album, Laudate dominum e Laudate hominem, i quali costituiscono già un'importante indicazione del ribaltamento di prospettiva effettuato nel disco.

 

I Vangeli apocrifi, in effetti, più che come diretta fonte letteraria sono presenti ne La buona novella come filtro ideologico: come notano Claudio Cosi e Federica Ivaldi108, il loro apporto concreto sui versi di De André è, tutto sommato, davvero modesto, e anche se l'attenzione ad alcuni dettagli così come l'enfasi posta sull'umanità dei personaggi piuttosto che sulla loro divinità può essere effettivamente rintracciata e ricondotta alle opere degli evangelisti non sinottici, la narrazione è, nel complesso, di matrice inequivocabilmente deandreiana, così come vanno riconosciute a De André la maggior parte delle immagini e in generale delle soluzioni letterarie presenti nei testi.

 

Il fulcro della riscrittura effettuata nell'album, allora, è da ricercarsi piuttosto, come si diceva, a livello di impostazione ideologica che non propriamente poetica o poetologica, e da questo punto di vista il riferimento ai Vangeli apocrifi non può che assumere un duplice significato. Innanzitutto, esso permette a De André di sottolineare come la sua narrazione – e quindi la sua prospettiva – sia altra, alternativa e diversa da quella ufficiale calata e imposta dall'alto; in secondo luogo – e aspetto, questo, ancora più importante – tale riferimento costituisce la principale chiave di lettura dell'allegoria sviluppata ne La buona novella contro il potere e contro l'autorità, così come il cantautore stesso la esplicherà trent'anni più tardi:

 

[...] alcuni [...] consideravano La buona novella anacronistica, perché non si erano accorti che, in effetti, La buona novella era un'allegoria. Un'allegoria che si precisava [...] attraverso il paragone fra le istanze più giuste del movimento sessantottino con altre istanze [...] contro l'abuso dell'autorità, contro i soprusi del potere [...] avanzate da un signore di 1969 anni prima che si chiamava Gesù di Nazaret, in nome di una fratellanza universale e di un egalitarismo universale.109

 

 

55. Corrado Bologna, Flatus vocis. Metafisica e antropologia della voce, Bologna, Il Mulino, 2000, p. 44.

immagini14

 

56. Ivi, p. 128.

57. Aldo Nove, trascrizione del live "Scrivere fra canzone e letteratura", Siena, 11 ottobre 2007; in Centro Studi Fabrizio De André (a cura di), Il suono e l'inchiostro, Milano, Chiarelettere, 2009, pp. 291-292.

58. L'etimologia di "aedo" (in greco αοιδός) è connessa proprio con il verbo αείδειν, "cantare".

59. Cfr. Bruno Gentili, Poesia e pubblico nella Grecia antica, Milano, Feltrinelli, 2006, p. 19.

60. Ivi, p. 30.

61. Si noti, a questo proposito, che il sostantivo "testo" è, etimologicamente parlando, il participio passato del verbo "tessere".

62. Cfr. Luigi Viva, Non per un dio ma nemmeno per gioco. Vita di Fabrizio De André, Milano, Feltrinelli, 2002, pp. 9- 60.

63. Cfr. Manlio Fantini (TV Sorrisi e Canzoni), Fabrizio De André, il menestrello in microsolco, 2 luglio 1967; in Claudio Sassi e Walter Pistarini (a cura di), De André talk. Le interviste e gli articoli della stampa d'epoca, Roma, Coniglio, 2008, p. 28.

64. Henri-Irénée Marrou, I trovatori, traduzione di Anna Maria Finoli, Milano, Jaca Book, 1983, p. 90.

65. Sul carattere formulaico delle melodie trobadoriche si veda anche Francesco Stella, Appunti per una fenomenologia linguistica della forma canzone dal medioevo a De André; in Gianni Guastella e Marianna Marrucci (a cura di), Da Carlo Martello al Nome della Rosa. Musica e letteratura in un Medioevo immaginato (Semicerchio XLIV), Pisa, Pacini, 2011, p. 9.

66. L'italiano "menestrello" – come anche il francese ménestrel e l'inglese minstrel – deriva dal latino ministerialis, aggettivo a sua volta connesso con il sostantivo ministerium (incarico, servizio).

67. Sandra Pietrini, L'invenzione romantica del buffone: da giullare di corte a nobile guascone; in Gianni Guastella e Paolo Pirillo (a cura di), Menestrelli e giullari. Il Medioevo di Fabrizio De André e l'immaginario medievale nel Novecento italiano, Firenze, Edifir, 2012, p. 30.

68. A differenza della letteratura, che può essere per lo più fruita e goduta direttamente dalla pagina scritta per mezzo della lettura silenziosa, la musica si realizza e realizza pienamente la propria funzione soltanto quando viene concretamente eseguita.

69. Cfr. Ferdinando Molteni e Alfonso Amodio, Controsole. Fabrizio De André e Creuza de mä, Roma, Arcana, 2010, pp. 25-26.

70. Collocazione: IV/56, c. 1 num. I.185-186 (Marta Fabbrini e Stefano Moscadelli, Archivio d'Autore: le carte di Fabrizio De André, Roma, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, 2012, p. 228).

71. Bob Dylan, Desolation Row; in Highway 61 Revisited, New York, Columbia Records, 1965.

72. Béla Bartók, Scritti sulla musica popolare, traduzione di Angelo Brelich, Torino, Boringhieri, 1977.

73. Queste e altre forme ascrivibili alla tradizione letteraria colta vengono elencate da Antonio Tabucchi, Quando un'epigrafe diventa un racconto; in Elena Valdini (a cura di), Volammo davvero. Un dialogo ininterrotto, Milano, Bur, 2007, p. 130.

74. In François Villon, Poesie, traduzione di Luigi De Nardis, Milano, Feltrinelli, 2008.

75. Riccardo Campi, "Citare la tradizione. Sul finale di The Waste Land"; in Citare la tradizione, Firenze, Alinea, 2003, pp. 21-43.

76. Cfr. Thomas Stearns Eliot, The Waste Land; in Stephen Greenblatt (a cura di), The Norton Anthology of English Literature, New York, Norton, 2006, p. 2308.

77. "[...] o perché avendo la testa piena di versi altrui ho creduto di lavorare d'immaginazione mentre non lavoravo che di memoria, o perché talvolta ci si imbatte negli stessi pensieri e negli stessi giri di frase, è certo che mi sono rivelato plagiario senza saperlo"; Voltaire citato in Campi, "Citare la tradizione", p. 22.

78. Thomas Stearns Eliot, Tradition and the Individual Talent; in Greenblatt, The Norton Anthology of English Literature, p. 2320.

79. Il verbo latino traděre, da cui deriva il sostantivo "tradizione", continua direttamente in italiano con "tradire", e solo indirettamente con "tramandare". A proposito di diversi modi di concepire la tradizione, si veda anche il pamphlet di Maurizio Bettini Contro le radici. Tradizione, identità, memoria, Bologna, Il Mulino, 2012.

80. Creuza de mä non verrà trattato in questa sede; si veda invece, a riguardo, il quinto capitolo.

81. Fabrizio De André e Paolo Villaggio, Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers; in Volume 1, Milano, Bluebell Records, 1967.

82. Cfr. Villaggio citato da Stefano Carrai, Carlo Martello di De André e Villaggio fra pastorelle e goliardia; in Guastella-Marrucci, Da Carlo Martello al Nome della Rosa, p. 106.

83. Nella versione su 45 giri del 1963 il brano presenta l'arrangiamento di Giampiero Boneschi; qui, in ogni caso, consideriamo la versione di Volume 1, arrangiata da Reverberi.

84. Nella Chanson de Roland il paladino Orlando muore eroicamente, nel tentativo di allertare le truppe di Carlo Magno, proprio suonando con tutte le sue forze un olifante, e cioè un tipo di corno da caccia.

85. Si veda l'analisi di Stefano La Via, De André 'trovatore' e la lezione di Brassens; in Guastella-Marrucci, Da Carlo Martello al Nome della Rosa, pp. 78-79.

86. Fabrizio De André e Massimo Bubola, Volta la carta; in Rimini, Milano, Ricordi, 1978.

87. Riccardo Bertoncelli (a cura di), Belin, sei sicuro? Storia e canzoni di Fabrizio De André, Firenze, Giunti, 2012, p. 99.

88. Ibid. Per il testo della filastrocca Volta la carta nella versione più nota e completa si veda http://bit.ly/2kMm5lQ; per quello di Madama Dorè, invece, http://bit.ly/2k87Vtc.

89. Fabrizio De André (testo di Cecco Angiolieri), S'i' fosse foco; in Volume 3, Milano, Bluebell Records, 1968.

90. Cecco Angiolieri, S'i' fosse foco; in Romano Luperini, Pietro Cataldi e Lidia Marchiani, La scrittura e l'interpretazione (1), Palermo, Palumbo, 1996, pp. 348-349.

91. Fabrizio De André (musica di Georges Brassens), La morte; in Volume 1.

92. Georges Brassens (testo di Théodore de Banville), Le verger du roi Louis; in Les Funérailles d'antan, Amsterdam, Philips, 1960.

93. De André, La morte.

94. Cesare Pavese, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, Torino, Einaudi, 1970.

95. Cfr. La Via, De André 'trovatore' e la lezione di Brassens, p. 93.

96. Cfr. Viva, Non per un dio ma nemmeno per gioco, p. 159.

97. Fabrizio De André (musica di Georges Brassens), Il gorilla; in Volume 3.

98. Georges Brassens, Le gorille; in La Mauvaise Réputation, Parigi, Polydor, 1952.

99. Bob Dylan e Jaques Levy, Romance in Durango; in Desire, New York, Columbia Records, 1976.

100. Fabrizio De André e Massimo Bubola (musica di Bob Dylan e Jaques Levy), Avventura a Durango; in Rimini.

101. Dylan, Romance in Durango.

102. De André, Avventura a Durango.

103. Cfr. Bertoncelli, Belin, sei sicuro?, p. 99.

104. Dylan, Romance in Durango.

105. De André, Avventura a Durango.

106. Fabrizio De André, La buona novella, Milano, Produttori Associati, 1970.

107. Si consideri quanto già detto a proposito nel primo capitolo.

108. Claudio Cosi e Federica Ivaldi, Fabrizio De André. Cantastorie fra parole e musica, Roma, Carocci, 2011, p. 92.

109. Fabrizio De André, M'innamoravo di tutto Il concerto 1998; ne I concerti, Milano, Nuvole Production, 2012.