Introduzione
L'artigiano non crea niente dal nulla; il suo mestiere, se mai, consiste in un lavoro paziente e accurato di recupero, appropriazione e rielaborazione di qualcosa che già c'è, e a cui egli conferisce una forma nuova e originale. Fabrizio De André è un artigiano: è lui stesso, innanzitutto, a definirsi tale, e del resto l'analisi del suo metodo compositivo, a cui è dedicato il primo capitolo di questo libro, non lascia spazio a molti dubbi in merito. Come lo Shakespeare artigiano del teatro di Muriel Bradbrook, De André l'artigiano non inventa mai le storie che racconta: anche per lui, l'ispirazione proviene sempre dall'esterno; spesso e volentieri, da una precedente lettura, che egli adatta poi in forma di canzone.
La musica, in questo processo, rappresenta un elemento tutt'altro che secondario, o accessorio. Se il Nobel a Bob Dylan ha recentemente riaperto l'annosa discussione riguardo a se la canzone possa o meno considerarsi letteratura, una delle risposte che spero di dare con questo lavoro è che sì, senza dubbio la canzone può considerarsi letteratura, ma d'altra parte non va mai con essa confusa né totalmente identificata, se non si vuole rischiare di perdere di vista il valore aggiunto che, al suo interno, è conferito al testo proprio dalla musica e dall'esecuzione cantata. Nel caso di De André, vedremo peraltro nel corso del primo capitolo come, a dispetto della fondamentale ispirazione – e ambizione – letteraria relativa al testo, la musica vada considerata a tutti gli effetti un elemento strutturale delle sue composizioni, andando essa a porsi fra lo spunto poetico primigenio e la modalità in cui esso concretamente si realizza.
A fare di De André un artigiano, a ogni modo, è anche e soprattutto il suo metodo di lavoro fondamentalmente collaborativo, il quale rimanda, non a caso, alla pratica della bottega dove l'opera viene realizzata collettivamente da apprendisti e maestro, e dove il ruolo di quest'ultimo consiste più che altro nel filtrare e nel convogliare i diversi apporti per dare vita a un insieme coerente e originale. Ciò che più conta, per quanto ci riguarda, è che una tale pratica di lavoro non può che presupporre una concezione dell'arte di matrice inequivocabilmente pre-romantica, in cui il primato spetta non tanto all'autore, quanto all'opera stessa.
Le tesi sviluppate in merito al metodo compositivo artigianale di Fabrizio De André vengono inquadrate, nel secondo capitolo, all'interno di un discorso di carattere più propriamente teorico. Le radici della peculiare concezione deandreiana dell'arte a cui abbiamo accennato sopra vengono individuate, innanzitutto, proprio alle origini della cultura occidentale, laddove musica e letteratura costituiscono un tutt'uno inscindibile, e laddove le storie – interamente affidate all'oralità e alla memoria – costituiscono un patrimonio collettivo che è innanzitutto depositario di una comune identità.
Il breve excursus che, disegnando una sorta di filo rosso, mostra le somiglianze di De André con le figure dell'aedo, del rapsodo, del trovatore e del menestrello ci consente di mettere in evidenza tre fondamentali dialettiche alla base dell'opera del cantautore (scrittura-oralità, colto-popolare, autorialità-collettività), le quali, a loro volta, rimandano a una dialettica più profonda fra due modelli culturali opposti e speculari. Il primo, incentrato sulla figura dell'autore come solo vero creatore di un'opera che viene fissata per sempre mediante la scrittura, è da identificarsi con la tradizione colta; il secondo, al contrario, coincide con la tradizione popolare tramandata oralmente per secoli in mille forme e in mille varianti, attraverso la memoria collettiva.
Sebbene i due modelli culturali coesistano – per l'appunto – dialetticamente all'interno dell'opera di De André, è però soprattutto il secondo che ci interessa in questa sede, dal momento che è in gran parte esso a motivare tanto l'unicità del suo approccio alla scrittura – unicità misurata, evidentemente, sulle consuetudini della canzone d'autore novecentesca – quanto la particolare concezione di tradizione che traspare dal suo canzoniere, sia a livello formale sia a livello ideologico. Come avremo modo di notare in diverse occasioni, la tradizione non è mai, per De André, qualcosa da difendere, da conservare e da tramandare così com'è, ma è qualcosa di cui è necessario, innanzitutto, appropriarsi a fondo, e che bisogna poi contribuire a inventare e reinventare, garantendone così non la mera sopravvivenza, ma la vera e propria vita.
Tale idea di tradizione è sostanzialmente il perno attorno al quale ruota anche tutto il resto di questo libro, dedicato all'analisi del canzoniere deandreiano e in particolare di tre dischi: Non al denaro non all'amore né al cielo (del 1971), Canzoni (del 1974) e Creuza de mä (del 1984). Il primo – riscrittura dell'Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters realizzata insieme a Giuseppe Bentivoglio e a Nicola Piovani – ci consentirà di riflettere non solo sulle modalità di quella che è a tutti gli effetti una traduzione inter-semiotica, ma anche e soprattutto sulla capacità di De André di servirsi di un'opera altrui per esprimere contenuti assolutamente originali. Il secondo – antologia di canzoni costituite per lo più da adattamenti e traduzioni dall'inglese e dal francese – , se da un lato ci mostrerà i diversi livelli di recupero, assemblaggio e rielaborazione di materiale preesistente operati dal cantautore, dall'altro ci permetterà anche di concentrarci sulla traduzione come pratica di mediazione non solo linguistica, ma anche poetica, ideologica e culturale in senso più ampio. Nel terzo – capolavoro in dialetto genovese e dalle sonorità mediterranee scritto insieme a Mauro Pagani – vedremo infine il discorso sulla tradizione concretizzarsi a livello di forma.